CENTRO STUDI ORIENTE OCCIDENTE

Convegno: 
TROVARE DIO IN IL SIGNORE DEGLI ANELLI E IN HARRY POTTER 
Ancona, 30-31 maggio 2002

INTRODUZIONE AL CONVEGNO
Giuseppe A. Possedoni
Centro Studi Oriente Occidente

Indipendentemente dal fatto che si pensi che è stato creato da un fattore esterno o si crei da sé, il mondo si presenta non come proiezione statica del suo principio, bensì come meravigliosa pluralità di forme ed eventi sempre nuovi, imprevedibili e varianti. Dunque, è la varietà l’ordine spontaneo del creato, che proprio perché non è la rappresentazione immobile della sua causa, è un processo dinamico, «mosso», movimentato dalla libertà di esprimersi mutevolmente.
Rispetto a questo andamento variabile, l’uomo, nel corso del tempo, ha adottato diversi tipi d’approccio, fra i quali quello religioso, quello magico e, ultimo in ordine cronologico, scientifico-tecnologico, sviluppato da un certo settore d’umanità, in Europa, prima, e poi nel continente nord-americano.
Gradualmente, sulla scorta dei successi conseguiti, scienza e tecnologia andarono prevalendo su ogni altro modo di porsi in relazione col mondo e la natura, in quanto mezzi efficaci, capaci di produrre effetti predicibili desiderati, a prescindere dalle variabili caratterizzanti i differenti contesti culturali e ambientali d’applicazione.
Una validità oggettiva che nessun altro metodo sapienziale in precedenza elaborato dall’uomo aveva mai dimostrato di possedere, che venne a saldarsi con la constatazione, forse ancor più decisiva, che varie società - comprese quelle più avulse rispetto ai presupposti storico-culturali nei quali scienza e tecnologia si erano sviluppate - esprimevano, una volta assaporati i loro frutti, richieste, di analogo tenore, di sempre nuovi, ulteriori vantaggi, concomitantemente allentando, in un tempo relativamente breve, i legami con i propri tradizionali modi di rapportarsi con la natura.
Civiltà profondamente differenti, insomma, non opponevano alcuna significativa resistenza alla perdita, più o meno marcata, di propri - anche importanti - tratti identitari, in cambio della possibilità di fruire dei loro ritrovati, capaci di soddisfare richieste sostanzialmente omogenee.
Un quadro che oltre ad accreditare scienza e tecnologia di efficacia e validità oggettiva, le fece assurgere al rango di modelli universali, superiori, cioè, a ogni altro modello interattivo fra l’uomo e la natura.
Se a questa concezione del primato scientifico-tecnologico, oramai globalmente affermata, si sovrappone, come oggi avviene, la determinazione, essenzialmente lodevole, di offrire a tutti le medesime opportunità di consumo, è inevitabile che appaia giusta e desiderabile la conformazione dei vari contesti culturali del pianeta a un solo, stesso modello, attuando un’operazione che di per sé – vista la tendenza delle diverse società planetarie a uniformarsi nella richiesta di beni, informazioni e servizi – non sembra carica di alcuna valenza coercitiva.
Forse, nessuno ha mai scientemente pianificato di omologare le varie società a un unico modello; e forse – si può pensare - chi si sente investito di tale missione davvero è animato da un movente innanzitutto umanitario. Ma è altrettanto innegabile che mentre il processo creativo, quando può darsi spontaneamente, consiste nella continua comparsa ed evoluzione di una pluralità di forme, creature, dinamiche naturali, ma anche di popoli, lingue e culture, nello scenario odierno va inequivocabilmente imponendosi l’uniformità e l’omologazione, sia delle diversità biologiche sia delle espressioni dello spirito umano.
Si sente, quasi palpabile nell’aria, una montante insofferenza per i problemi che le peculiarità, con le loro diverse «pretese», per forza di cose creano a quella che si vorrebbe fosse la sola norma organizzativa del mondo; e le differenze paiono rappresentare, più che ogni altra cosa, ostacoli sulla via della realizzazione di un benessere illimitato e diffuso.
Ma nonostante il mondo, inteso nella sua accezione di «uni-verso» sia volto a unità, è tutt’altro che certo che spetti all’uomo realizzarne l’integrazione secondo un unico criterio attuativo; mentre pare assai più ragionevole che in nessun modo gli spetti di farlo forzando il principio-guida del processo creazionale, che spontaneamente protende verso la complessità, la varietà, il molteplice, verso il continuo e imprevedibile cambiamento, e non nel senso opposto.
Invece, nel quadro oggi in atto sul pianeta, prevale proprio un carattere «controsensato», che in quanto tale non può che recare insita una valenza negativa e che, nonostante temporanei assetti apparentemente favorevoli, plausibilmente potrebbe rivelare, prima o poi, una natura distruttiva.
Ciò potrebbe accadere quando l’uniformità, una volta impostasi globalmente, sarebbe a quel punto giunta a costituire una «sopravvenienza» sulla natura così forte e prevaricante da alimentare l’idea che la natura stessa sia divenuta inservibile e le sia preferibile la realtà prodotta tecnologicamente.
A quel punto, sul «terreno» rappresentato dall’ordine spontaneo del mondo – che, come si è detto, consiste nella continua, imprevedibile comparsa di sempre nuova varietà - si sarebbe venuto a stratificare un apporto umano così «denso» e «pesante» da occultare il «fondamento» sottostante 

Non è arduo capire che un siffatto scenario rappresenterebbe la fine della possibilità - per chi lo volesse - di decifrare i codici insiti nella realtà naturale al fine di «leggervi» eventuali «messaggi», simboli, informazioni, suggestioni sui «perché» il principio originario (comunque lo si intenda) ha operato, facendo sì che il mondo ci appaia come ci appare.
E’ per queste ragioni che l’occultamento della realtà primaria, fruttata dal processo creazionale spontaneo, è una prospettiva da prevenire fermamente; non, però, contrastando pregiudizialmente la modernità, ma integrando nel dominante approccio tecnologico la nozione del mistero e, precisamente, del mistero metafisico a monte della creazione e, dunque, anche a monte dell’uomo e della sua soggettività: il mistero dell’«altro».
Una nozione, questa del metafisico «altro da sé», che diverrebbe poco o punto intuibile in un mondo che si presentasse sotto aspetti omologhi e totalmente, o quasi, predicibili da parte dell’uomo. Il quale, essendo venute meno le condizioni per il prodursi dell’imprevedibilità e della varianza, non potrebbe più sperimentare la meraviglia e lo stupore derivanti dall’apparizione del nuovo, dell’originale, dello spontaneo.
L’uomo, forse, sarebbe anche assurto al rango di controllore della biosfera, ma di un mondo divenuto a quel punto solitario, privo cioè di qualsivoglia alterità con la quale relazionarsi.
Seppure affollato di individui e saturo di una perfetta, globale opportunità di gratificazione psico-sensoriale, il pianeta, svuotato della sua spontaneità evolutiva, risulterebbe, per contro, spogliato della meraviglia e dell’incanto; i quali, per definizione, non possono che provenire da un «punto» al di là della portata creaturale, situato oltre il raggio intellettivo del soggetto che li sperimenta.
Un «punto», dunque, che mai, quand’anche fossero smisurate, potrebbe essere ricompreso nell’ambito delle facoltà umane, proprio perché generatore e dispensatore di ciò che, recando in modo assolutamente imprevedibile originalità, varietà e novità laddove in precedenza non erano, è, appunto, in grado di suscitare stupore, sorpresa, incanto.
Un «punto» così caratterizzato, totalmente altro dalla sfera creaturale e, nondimeno, in grado di comunicare con essa, trasmettendole sempre nuove variazioni, non è pensabile come un principio impersonale, come una forza endogena, un’energia o una norma ordinatrici puramente immanenti nel mondo, operanti in modo meccanico, sempre uguale e ricorrente, secondo automatismi monocordi e ripetitivi tali da escludere qualunque possibilità di modificazione, che – va da sé - potrebbe derivare unicamente da un’immissione d’originalità quale soltanto una persona sarebbe in grado di determinare.
Forze o principi del genere, infatti, pur potendo originare manifestazioni stupefacenti sulle diverse scale dimensionali, non potrebbero mai produrre effetti varianti, né, pertanto, realizzare un mondo capace incessantemente di stupire chi lo osserva.

1 Non che l’interazione fra spontaneità della natura e apporto dell’inventiva e dell’ingegno umano sia un dato ex novo della modernità dominata da scienza e tecnologia. Oggi però – e qui sta la differenza rispetto al passato - il concorso umano appare soverchiante, prossimo a trasgredire quell’equilibrio con la spontaneità del processo creazionale, oltrepassato il quale quest’ultima verrebbe meno. L’esito sarebbe una creazione assolutamente «comoda», rassicurante, pressoché totalmente predicibile e sotto controllo, che, nonostante significativi aspetti di monotonia, difficilmente potrebbe essere rinnegata: non tanto per le possibilità teoricamente infinite di appagamento che essa sarebbe in grado di offrire, quanto e forse soprattutto perché prodotto determinato prevalentemente dall’uomo. Risiede qui, probabilmente, la ragione più radicale della riluttanza che molti - si trovino pure all’estrema periferia del potere – istintivamente avvertono rispetto all’idea di cedere quote anche solo minimali della propria potestà spirituale, di abdicare foss’anche a un’esigua parte della signoria su di sé, del sentimento di essere il solo decisore del proprio modo di rapportarsi con il creato.

Eppure, il mondo naturalmente varia e, continuamente variando in modo sempre nuovo e inaspettato, continua a incantare. Così, sebbene il processo di omologazione in atto paia dirigersi in un senso antitetico a quello creazionale - come se il mondo derivasse in tutto e per tutto da una potenza impersonale e solo immanente - l’esperienza fattibile osservando la spontaneità naturale, suffraga e attesta che a monte dell’esistenza vi è un Altro, e di natura trascendente.
Un Altro che, proprio per questa metaempiricità, per questo suo eccedere l’ambito del comprensibile, è ragionevolmente intuibile come una persona. Soltanto una persona, infatti, presenta congiuntamente i tratti della trascendenza e dell’imprevedibilità.
Trascendenza perché il sentimento d’esistere come entità individuata è noto solo al soggetto che ne è il «titolare», restando invece inafferrabile per l’altro, in quanto nessuno è in grado di circoscrivere, ridurre alla propria portata l’essenza dell’essere altrui 2.
Imprevedibilità, perché soltanto una persona, e mai un principio inconsapevole, per quanto potente e cosmico, può variare, modificarsi motu proprio in modo inedito e originale.
Questa persona, di natura trascendente e al tempo stesso collocata ontologicamente a monte del processo apparizionale di un mondo sempre nuovo e affascinante, non può che identificarsi con quella, divina, del Creatore.
E’ impossibile prevedere se l’uomo riuscirà mai a esercitare un dominio tecnologico sulla natura tale che il mondo divenga così perfettamente aderente alle sue finalità da risultare privo persino della possibilità di presentare sorprese. Se vi riuscisse, vuol dire che sarebbe pervenuto a creare un ambiente fatto soltanto del suo apporto e, quindi, senza più traccia sensibile del personalismo legato all’esistenza di quell’Altro che, in principio, ha creato.
Ma anche se soltanto nutrisse, senza effettivamente riuscirvi, l’aspirazione a realizzare un simile scenario, egli, non percependo più che il mondo reca l’impronta ontologica della Divinità, dichiarerebbe la propria resa alla più antica delle tentazioni, insita nella facoltà stessa di autodeterminarsi: quella di credersi dio e dimenticare che il massimo ruolo acquisibile dalla creatura mediante l’esercizio dell’autonomia è quello di «subcreatore».
L’uomo, forse, non perverrà mai a un controllo assoluto sulla natura, ma il dato, innegabile, che a livello planetario sia proiettato in tale direzione è alla radice dell’irrequietezza e dello smarrimento che si manifesta e cresce di pari passo alla consapevolezza che tale tendenza è in atto.
Questo smarrimento è innanzitutto perdita di senso: di quel senso che si mostra o ritrova quando, rinunciando all’avvitamento spirituale su se stessi, ci si espone, ci si rende disponibili all’attrazione esercitata dalla relazione fra sé e il mistero dell’altro.
Un mistero che però diviene sempre più sfocato e difficile - quando non impossibile - da intuire se, invece dell’estroversione spirituale – che però non è mera uscita da se stessi, ma ricerca in sé della presenza dell’altro -, ha il sopravvento la sola ricerca di sé, il desiderio di realizzare il proprio potenziale, l’autoripiegamento nella propria interiorità.
Atteggiamenti, questi, che in taluni casi possono condurre a un grado anche alto di adempimento psicosomatico, ma che non superano mai il livello di un radicale solipsismo, del quale a volte, nei momenti di percezione più acuta, anche chi vi è totalmente immerso riesce a cogliere la discrasia rispetto alla sublimità della nozione del Dio trinitario cristiano, unico, sì, ma non solitario.
Tolkien e la sua subcreazione letteraria sembrano andare contro tutto ciò, ergersi avverso tale tendenza al soggettivismo e all’omologazione, e la sua Terra di Mezzo - la realtà fantastica tracciata nelle sue narrazioni, con le minuziose, vivide descrizioni paesaggistiche, e le toponimie e le sue lingue inventate e molto altro ancora - appare come il prodotto di una creatività perfettamente conscia dell’urgenza di contrastare una direttrice pericolosa.
Tolkien e la sua letteratura, però, sono molto più che argini contro le tendenze dominanti: con le sue storie, Tolkien, come solo pochi altri, riesce a fare nella dimensione spirituale ciò che il processo creativo, oggi costretto, smorzato, compresso dalle realizzazioni tecnologiche, sembra sempre meno in grado di attuare sul piano naturale: reincantare.

2 Diversi sono, eventualmente, i modi e le vie per accedere, tuttavia senza mai poterla comprendere, a un’altra persona.

E vi riesce non solo perché è particolarmente abile nel provocare nel lettore la sospensione dell’incredulità riguardo al suo mondo fantastico, ma anche in virtù di un’altra rara dote, che è la capacità di richiamare il mistero della divinità, dell’Altro creatore, senza però menzionarlo.
Questa sua facoltà è magistrale, perché, pur lasciando che Dio superficialmente sia assente dalla narrazione, Tolkien induce il lettore a integrare questo spazio apparentemente vuoto, a empirlo con la propria religiosità. Così, sebbene non vi sia ricorso al linguaggio religioso, né a toni morali, la religiosità, quella sì, permea praticamente ogni passaggio.
Tuttavia, la religiosità che il racconto, seppure in modo non esplicito, vuole evocare, non è un generico sentimento del Sacro, colorabile in qualunque modo dal lettore a seconda della sua specifica sensibilità, bensì una religiosità precisa, individuata, che, secondo la tesi qui avvalorata, ha un’impronta essenzialmente cristiana.
Tolkien non si sogna di ridurre il mistero supremo a elemento di un intreccio narrativo o, peggio, a materiale per la creazione di un universo soltanto suo personale, nel quale quel mistero lo si vorrebbe asservito al fine del narratore, con il risvolto che necessariamente verrebbe a svanire, a non essere più tale, proprio perché ricompreso in un ambito – la mente dell’autore – che non può contenerlo.
Tolkien, invece, reincanta portando impercettibilmente il lettore a dedurre Dio dagli eventi narrati. Riesce in ciò perché subcrea un’altra realtà che è sì fantastica, e che come tale va anch’essa a sovrapporsi a quella primaria o naturale, esattamente come la subrealtà uniforme e omologata del mondo contemporaneo tecnologico o come le altre subrealtà letterarie, ma che però, a differenza di quelle, le si sovrappone senza prevaricarla od occultarla, ma, anzi, lasciandola costantemente trasparire.
Diversamente da altre subrealtà, la subrealtà tolkieniana, essendo prodotto della fantasia, ovviamente non ha il marchio di alcuna volontà protesa a vincolare la spontaneità della natura al fine di soddisfare la sempre crescente richiesta di beni, informazioni e servizi. Né d’altro canto reca un calco troppo pesante della mente del suo autore; il quale nel costruire un mondo immaginario, non lo subordina troppo alla propria sensibilità e pur popolandolo di elfi, mostri e nani e altre creature fantastiche connesse alla natura, non traligna mai nell’animismo o nel panteismo, ma, piuttosto, preserva costantemente sullo sfondo la percezione che niente è autoreferenziale e tutto invece, compresa la creatività letteraria, dipende da un Altro, che tuttavia può anche non rivelarsi immediatamente, neppure nella narrazione.
La subrealtà tolkieniana non è prona né ai trionfi del pragmatismo e dell’efficientismo realista, né all’enfatizzazione cultuale della fantasia; pertanto non si stratifica sulla realtà primaria, finendo, come fanno altre subrealtà più «pesanti», con l’obnubilarla o eclissarla. Piuttosto, lascia che attraverso di sé, attraverso il racconto, filtri, pur non apparendo, quell’altra Realtà, creatrice e trascendente, che coincide col principio fontale di ogni mondo, reale o immaginario.
Il risultato – che è poi la ragione per cui esse affascinano singolarmente – è che le opere di Tolkien (ma anche le fiabe, i racconti fantastici di altri autori «graziati» con lo stesso «carisma» letterario) divengono mondi incantati e incantatori, tali perché scaturenti dall’interazione fra pensiero creatore e pensiero creaturale, dal connubio che, ossequiosamente, le invenzioni del narratore chiedono di celebrare con l’orma, presente in ogni cosa, del primo, unico, solo vero Autore.
Ciò detto, permane l’interrogativo su come Tolkien riesca a far sì che il trascendente intuibile nella sua subrealtà letteraria sia – come qui ipotizzato - quello cristiano.
Un’ipotesi – tracciata già anni addietro da esperti esegeti tolkieniani, nonché ventilata dall’autore stesso - è che la saga dell’anello, dove pure non viene mai fatto cenno a un essere personale supremo, né all’evento dell’Incarnazione, faccia in molteplici sue parti riferimento a simboli e schemi evangelici. E, richiamandosi a tali paradigmi e modelli, evochi necessariamente nel lettore una spiritualità neotestamentaria.
Ad esempio, il protagonista della saga, l’hobbit Frodo, sceglie volontariamente, nonostante la propria fragilità, di prendere su di sé la «croce» dell’anello, che nessun altro mostra di volersi addossare, accollandosi il peso del male del quale il cerchietto è carico per portarlo lungo il viaggio verso la sua distruzione. Così facendo egli non solo solleva i compagni dall’onere di farlo, e dai rischi insiti in tale incombenza, ma, soprattutto, si presta a interpretare («incarnare»?) il disegno volto a impedire che il mondo soccomba sotto il suo malefico potere, accettando su di sé il rischio – che poi si rivelerà reale – di una ferita alla propria serenità e integrità spirituale.
Frodo, quindi, rinuncia a sé nel senso che si espone coscientemente al pericolo di vedere minate le basi della propria persona, e lo fa non per protagonismo eroico, bensì per prevenire che altri si espongano a tale minaccia, pagando poi, spiritualmente, ma anche fisicamente, un prezzo per questa sua disponibilità.
Alcuni hanno visto in tutto ciò un richiamo alla vicenda cristiana e assegnato al personaggio di Frodo un valenza «cristica», proprio in base alla rinuncia, al sacrificio di sé implicito nella sua scelta di farsi portatore dell’anello e di soffrirne le probabili conseguenze. Forse questa attitudine di Frodo non è così totalmente sovrapponibile alla vicenda di Gesù, se non per una certa affinità -comunque rilevante - dei rispettivi moventi: Gesù, infatti, era Dio, che per amore verso le creature non preservò gelosamente la gloria della propria divinità, ma accettò, assumendo la natura umana, di svuotarsene, abbassandosi fino all’abisso più profondo e oscuro costituito dalla solitudine e dalla disperazione della morte.
Frodo, invece, è una creatura, dunque un essere privo del potere di impedire che la serenità goduta da lui e dal suo idilliaco mondo possa, prima o poi e a prescindere dalla sua volontà, dissolversi, svanire per una più che probabile e, anzi, quasi certa affermazione del male, a meno che qualcuno non accetti – come lui farà - di rischiare personalmente per distruggerne il simbolo.
Entrambi – è vero - per adempiere al loro fine salvifico, indubbiamente ispirato da vero amore, si caricano di dolore: Gesù accettando la sofferenza della Passione, Frodo i rischi insiti nel trasporto dell’anello e le successive «ferite» spirituali.
Ma grande è la differenza retrostante, poiché mentre Gesù, Dio, avrebbe anche potuto astenersi dall’esperienza del dolore e restare inattivo innanzi agli effetti deleteri della libertà umana, Frodo, al pari di ogni altra creatura della Terra di Mezzo, restando nell’inazione sarebbe comunque andato incontro a un drammatico destino, alla perdita o della sua integrità personale, messa a rischio dal potere spiritualmente erosivo dell’anello, o del mondo da lui conosciuto e amato, che sarebbe inevitabilmente stato sopraffatto dal male nel caso in cui nessuno fosse stato disponibile al sacrificio di sé perché altri potessero nutrire la speranza di evitare siffatta, tragica sorte.
Ciò nulla toglie all’altruismo e alla grandezza etico-morale rivelata da Frodo nell’offrirsi (anche per preservare i compagni, correndo lui i pericoli in loro vece) per una missione salvifica dalla riuscita improbabile; ma sembra quasi che Tolkien, scientemente, non abbia voluto forzare la narrazione, evitando indebiti e troppo precisi accostamenti fra le storie della sua subrealtà e la vicenda dell’Incarnazione.
Pare, cioè, che egli quasi non abbia voluto lasciare tracce marcate e profonde, bensì soltanto «semi», elementi vaghi, accennati, e però bastanti per suscitare un’eco evangelica, ma senza espliciti riferimenti alla Rivelazione, in tal modo evitando di gravare troppo con la propria inventiva sulla narrazione e, piuttosto, creando con levità quel «vuoto», quella disponibilità di spazio estetico e spirituale pronta per essere empita, cristianamente, dal lettore.
Tolkien nel Signore degli Anelli non parla mai apertamente di Dio, perché sa bene che una subcreazione, per quanto evocativa e affascinante, non è la realtà primaria e sa ancor meglio che le narrazioni della fantasia e del mito, appartenendo a un altro livello, umano, creaturale, non possono né debbono mai essere mescolate con gli eventi della Storia. E’ attenendosi a questo «modo» narrativo, mantenendo cioé Dio «nascosto» - al di là di racconti, dai quali tuttavia la sua presenza continuamente traspare - che Tolkien porta insensibilmente la saga a confluire nell’alveo cristiano.
Un altro esempio di questo «modo» interno del narrare tolkieniano è l’episodio dell’incontro fra una parte della compagnia dell’anello e il «cavaliere bianco», ossia lo stregone Gandalf, reduce dalla caduta negli abissi della più profonda e tenebrosa delle grotte, nei quali – per chi non ricordasse il racconto - era stato trascinato da un demone dei tempi primordiali, al quale egli si era opposto per consentire ai propri sodali di proseguire nell’impresa.
Si tratta di un episodio nel quale i membri della compagnia – intenti, nel mezzo di una foresta, a cercare tracce di Frodo, incamminatosi lungo un’altra via – non riconoscono l’amico Gandalf, guida in tante gesta comuni, il quale riappare loro tra la vegetazione. Sì, certo, lo stregone è vestito di luridi stracci grigi e non con vesti degne del rango in cui egli figura ancora nel ricordo dei suoi compagni, ma il punto è che questi ultimi non riconoscono più la sua persona neanche quando si trovano faccia a faccia, e, anzi, sono diffidenti al punto di volerlo colpire con le armi dopo averlo scambiato col più pericoloso dei loro nemici.
E’ a questo punto che Gandalf, lui, si fa riconoscere, ergendosi - come dire? – «gloriosamente» nel suo potere e lasciando stupefatti e impietriti gli amici, uno dei quali si chiede, avendolo finalmente riconosciuto, «qual velo copriva i miei occhi?».
E non è tutto, perché Gandalf, nel farsi riconoscere, lascia cadere la tunica cenciosa così da scoprire le sue nuove vesti sottostanti, bianche, di cui è divenuto degno dopo avere «attraversato fuochi ed acque profonde», ovvero dopo avere subito una profonda trasformazione per la quale adesso è in grado – dice egli stesso - di «vedere molte cose assai lontane» mentre molte altre, vicine – spiega ancora - sfuggono alla sua vista.
Gandalf, lo stregone che prima di sprofondare nel baratro insieme col demone malvagio era e aveva il grigio quale colore contraddistintivo del proprio potere, è ormai divenuto luminoso, bianco, proprio per avere sondato profondità smisurate «al di là della luce e di ogni conoscenza». E per essere riemerso - in una sequenza tipicamente iniziatica di morte e rinascita, che egli stesso narrerà poco dopo ai suoi compagni– a una rinnovata condizione esistenziale, in cui si rivela agli amici, liberandoli dalla mestizia per la sua scomparsa. Una condizione in cui egli appare sempre uguale, eppure diverso, identico, ma – se si può dirlo di un’entità angelica, quale Gandalf é, dotata di poteri soprannaturali - trasumanato nella sua nuova figura radiosa, capace – sappiamo dal racconto - di riflettere raggi di sole sulle mani, che, «col palmo rivolto verso il cielo sembrava che contenessero la luce come vasi empiti di acqua».
Spunti, sequenze, cenni, descrizioni – quelli di questo passaggio della saga dell’anello – che non possono non evocare alcuni brani evangelici: come non rilevare nella ricomparsa di Gandalf riferimenti all’episodio narrato da Luca (24, 13-35) dell’apparizione del Risorto ai discepoli diretti a Emmaus, dal quale apprendiamo che essi, nonostante la precedente familiarità e le notizie già loro pervenute della resurrezione, non riconoscono Gesù «perché i loro occhi erano come accecati»? E dal quale, inoltre, veniamo informati che è Gesù stesso a farsi riconoscere, aprendo con la frazione del pane gli occhi ai due uomini, e non i due a comprenderlo in virtù di un proprio atto cognitivo?
E ancora, come non andare, leggendo la descrizione del candore delle nuove vesti di Gandalf e, soprattutto, della radiosità della sua nuova figura, ai passi di Matteo (17, 1-2), Marco (9, 1-3) e Luca (9, 28-29) che parlano della trasfigurazione e delle vesti di Cristo, che – è Marco in particolare a tramandare - «divennero splendenti, bianchissime» tanto che «nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche».
Niente in Tolkien ricalca pedissequamente la narrazione evangelica – non è pensabile che egli avrebbe anche soltanto mai osato pensare di accostare la sua fantasia ai puntelli letterari della Fede -, ma molti sono nel suo narrare i punti nei quali le si fa riferimento; in un modo, però, sempre solo sfumato, accennato, e mai esplicito o marcato. Eppure, dal racconto di Tolkien sentiamo anche noi, senza che Egli apertamente si riveli, palpitare Dio, un po’ come i discepoli di Emmaus, pur senza riconoscere Gesù, sentivano ardere un fuoco nel cuore mentre ascoltavano le spiegazioni da lui date delle Scritture.
E sentiamo – perché è Tolkien stesso che gli si richiama – che il Dio palpitante oltre il livello narrativo è il protagonista dei racconti evangelici. E’ vero: nella saga sono la natura e lo scambio di linfa vitale col suo fantastico popolo di elfi, orchi, hobbit, nani e altre fantastiche creature e uomini di un’altra era ad accentrare il fascio dell’attenzione; tuttavia, seppure la natura venga descritta così vividamente da farla sembrare viva, animata, essa non viene mai divinizzata, né pertanto emerge dall’invenzione letteraria un tono pagano. Mentre invece, proprio in ragione dei cenni, lievi, ma fondamentali e ricorrenti alla vicenda gesuana, il Dio nascosto che, seppure insensibilmente, traspare dalla narrazione, altri non è che quello della tradizione cristiana.
Diversamente da quanto avviene in Tolkien, nella cui opera, per sapiente artifizio letterario, la trascendenza impregna ogni episodio (seppure, come per definizione deve, senza mai manifestarsi), nel ciclo di Harry Potter non sembra figurare alcun richiamo a un livello esistenziale oltre quello delle apparenze. Qui Dio non solo è latente, ma non pare neppure presente, non sembra in alcun modo evocato dal racconto, sebbene importanti critici e analisti vi ravvisino parziali riferimenti e vi trovino addirittura, a tratti, modulazioni di carattere teologico 3.
Per qualche cenno alla saga di Joanne Rowling, è opportuno attingere, anche abbondantemente, a un saggio sul fenomeno Harry Potter del padre gesuita Antonio Spadaro, apparso sul numero del 2 marzo 2002 del quindicinale «La Civiltà Cattolica».
Harry è un bambino inglese d’indole buona, orfano indifeso nelle mani degli zii tutori; ma, soprattutto, è un mago, ossia un bambino figlio di maghi e naturalmente dotato di straordinari poteri; egli per la prima parte della sua vita subisce i sorprusi dello zio e della zia e del cugino coetaneo «babbani», così come dai maghi vengono chiamati gli umani senza poteri. A undici anni, però, il suo destino cambia e Harry scopre la sua vera natura, ovvero quella di ragazzo destinato a frequentare la più prestigiosa scuola di magia per affinare i suoi poteri al fine di lottare contro il male, rappresentato, nella saga, dal mago cattivo Voldemort, che uccise i suoi genitori e tentò, ma inutilmente, di eliminare anche lui.

3 Lo scrittore Pietro Citati sul quotidiano La Repubblica

Questo, a grandissime linee, lo sfondo: Harry è un bambino capace di grandi cose, che però viene tenuto all’oscuro dagli zii di questa sua potenzialità, la quale nondimeno, a tempo debito, si manifesterà, facendolo maturare nel ruolo che gli è proprio. Il modello è analogo a quello del Brutto Anatroccolo e di Cenerentola, ma in più qui c’è il potere connaturato della magia, grazie alla quale – lottando e sconfiggendo Voldemort – Harry, nonostante le sue debolezze, comuni a quelle di ogni ragazzino, salva il mondo.
Questa narrativa – scritta, e non è poco, con un linguaggio agile, chiaro, mosso, gustoso, intrigante, ricca di particolari irresistibili e umoristici di cui solo gli inglesi sembrano capaci, con un continuo scoppiettio di situazioni imprevedibili e soluzioni altrettanto bizzarre - ha prodotto molteplici effetti.
Da un lato ha fatto riaccostare alla lettura, peraltro di testi piuttosto voluminosi, schiere di giovani e giovanissimi lettori solitamente incollati ai videogames e alle play-station, probabilmente sollecitati da un forte senso d’identificazione con il protagonista e la sua abilità di avvalersi dei magici poteri; è molto più facile, infatti, sentirsi affini a Harry Potter, piuttosto che ad Alice o a Pinocchio, immaginandosi dotati di potere magici per districarsi in mezzo a un mondo di adulti «babbani», solitamente tetragoni innanzi alle esigenze di un bambino.
Dall’altro, ha indotto alcuni a ravvisare nella narrazione valenze addirittura «cristiche».
Harry Potter, infatti, reca sulla fronte una cicatrice a forma di saetta, segno del colpo infertogli da Voldemort nel tentativo, risultato vano, di ucciderlo. In ciò qualcuno 4 ha visto un’analogia con le piaghe del Cristo, perché Harry quasi muore e risorge, o meglio, viene colpito gravemente in seguito all’attentato e però scampa alla morte per poi crescere e rafforzarsi al fine di sostenere la lotta che porterà alla sconfitta del male. La cicatrice a forma di saetta sarebbe dunque il segno di un destino eccezionale ed eccezionalmente importante per le sorti della parte buona, non malvagia, del mondo.
C’è inoltre l’altro aspetto del misterioso rapporto che Harry intrattiene con il male: la sua bacchetta magica, infatti, è dello stesso tipo, presenta analogie con quella di Voldemort, mediante cui questi ha operato le più tremende nefandezze
Lo stesso Voldemort, poi, farà rilevare a Harry le somiglianze delle rispettive vicende e quando questo signore oscuro lancerà contro Harry la propria bacchetta, invece di soccombere Harry, impensabilmente, si ritroverà chiuso con lui dentro una sfera, in un faccia a faccia tra Bene e male che, fronteggiandosi, si riconosceranno l’un l’altro.
Sono forse, questi, indizi che alla radice del mondo potteriano vi è una forza di per sé neutrale, che reca intrinsecamente frammischiati il Bene e il male? E che soltanto coloro i quali sanno magicamente come fare sono in grado di costringerla ad assumere di volta in volta diverse colorazioni morali conformi all’avvicendamento delle proprie disposizioni?
Un riscontro esplicito, finora, dalla saga della Rowling non viene, e la narrazione mantiene un garbato riserbo riguardo alle ultime cose.
Ma certo, se una risposta dovesse essere tratta dagli elementi acquisibili sino a oggi, non potrebbe che trattarsi di un sì, di una risposta, cioè, attestante un’impostazione di fondo essenzialmente pagana.
Perché se è vero che sono le scelte morali che portano gli uomini alla malvagità o alla bontà, quando però - come si evince dal materiale potteriano - l’abissale distanza fra Dio (nella saga la forza numinosa che consente ai maghi di essere tali) e la creatura (i fattucchieri descritti della vicenda, a cominciare dai giovani protagonisti) viene negata, e Dio (quella stessa forza numinosa) viene creduto manipolabile (mediante le arti magiche) da parte dell’uomo, allora si manifesta l’idolatria.
Tuttavia, a prescindere da questo aspetto ancora in sospeso, tanto i temi della lotta e del rapporto col male risaltano nell’opera della Rowling, che alcuni critici non hanno esitato a riconoscerle la dote forse più rara fra i narratori: la capacità – già accennata - di trasfondere nel racconto toni teologici.

4 Lo psichiatra infantile, psicanalista e scrittore Serge Tisseron sulla rivista Le Monde Diplomatique.

Altri 5, invece, hanno visto nella saga di Harry Potter una serie di avventure allegre, umoristiche, solari - seppure con qualche tratto di cupezza - scritte con grande abilità e leggerezza e, soprattutto, capaci, anche grazie ai richiami alle antiche leggende del folklore celtico, di corrispondere a una delle istanze più sentite dal pubblico: quella del puro e semplice divertimento, e nulla più.
Vi è, poi, chi ha teorizzato 6 che alle base del grande successo letterario della saga, oltre che fra i più giovani, anche tra i grandi, vi sia il fatto che nella cultura anglo-americana l’infanzia è considerata una condizione superiore, e che ciò porterebbe molti adulti, desiderosi di mantenere i privilegi goduti a quell’età, a non crescere mai del tutto e a non rinunciare a considerarsi giovani assai più a lungo dell’età anagrafica, mantenendo, almeno per alcuni aspetti, atteggiamenti mentali adolescenziali o infantili. Senza contare che la storia di Harry Potter riflette una delle fantasie più comuni e ricorrenti tra i bambini, quella per cui i genitori che impongono divieti di ogni tipo, nonché i fratelli prepotenti e dispettosi, non rappresenterebbero la vera famiglia, ma un gruppo nel quale ci si trova a doversi barcamenare, anche grazie agli speciali, magici poteri conferiti dall’immaginazione.
Altri ancora 7 hanno visto nella letteratura potteriana un canto alla civiltà occidentale, in particolare anglosassone, un tributo alla tradizione in cui l’amicizia è un valore infrangibile e il rispetto delle regole un elemento fondante, perché talento, intraprendenza, generosità e solidarietà nascono e crescono nel rispetto delle regole; sebbene anche sovrastino le regole, che di per sé prevedono di essere, talvolta, violate; come peraltro Harry fa in qualche occasione, dicendo bugie e disubbidendo a disposizioni impartitegli dagli adulti per ottenere, però, finalità superiori e più buone che, altrimenti, non avrebbero potuto essere colte.
D’altro canto, non sono poche nemmeno le critiche e le accuse rivolte alla saga della Rowling, provenienti principalmente da ambienti americani legati alla religiosità protestante. Fra queste, quella di favorire nei giovani e nei giovanissimi la simpatia verso la magia e l’occultismo, di istigarli alla stregoneria; elementi, questi, però presenti in molte altre storie fantastiche per l’infanzia. E difatti, la replica a queste obiezioni 8 si basa proprio sul fatto che in classici come Cenerentola, Biancaneve e Pinocchio non mancano certamente incantesimi, fatture e sortilegi.
Né pare più mordente il rilievo che i bambini non sarebbero messi in grado di distinguere chiaramente i confini tra mondo reale e magico, perché mentre Biancaneve e Cenerentola vivono in un mondo apertamente fantastico, Harry Potter opera in un contesto che, nonostante alcune cesure tra magia e realtà 9, appare immediatamente contiguo a quello reale, sostanzialmente identificandosi con la vera Gran Bretagna, tutt’al più del recente passato. A ciò, giustamente, si è controdedotto evidenziando che lo stesso potrebbe dirsi di Peter Pan e di Mary Poppins, i quali, allora, dovrebbero essere messi al bando per le stesse ragioni.
Inoltre, chi, obiettando agli accusatori, nega che la saga di Harry Potter induca i bambini all’interesse per le pratiche magiche o stregonesche – che per inciso, va ricordato, la tradizione giudeo-cristiana condanna in modo netto e inequivocabile 10 –, osserva che le organizzazioni dedite a tali arti occulte oggi, statisticamente, risultano in declino, e ciò nonostante che l’invasività, nella vita quotidiana di larghi strati della popolazione euro-americana, di letteratura, fiction, produzioni televisive e cinematografiche per buona parte incentrate sul magico e sul paranormale perduri ormai da anni.
Certo, anche i «difensori» di Potter ammettono che, seppure non sia in aumento, e anzi decresca l’appartenenza a organizzazioni esoteriche, è tuttavia innegabile, sotto gli occhi di tutti, che la credenza nella magia e nella superstizione costituisce un fenomeno molto diffuso e presente nelle società euro-americane cristianizzate, e in particolare fra i giovani.
Tuttavia, essi rilevano che questa situazione risulta ormai stabile da lustri e che ciò impedisce di teorizzare un legame diretto fra aumento della produzione di fiction magica e medianica e crescita, nelle masse popolari, della fede nelle arti divinatorie e stregonesche e, in generale, nell’occulto e nel paranormale.

5 Lo scrittore Stephen King sul quotidiano Il Corriere della Sera.
6 Alison Lurie, scrittrice e docente di letteratura inglese, su La Rivista dei Libri.
7 Il giornalista del Corriere della Sera Francesco Merlo.
8 Per lo più del sociologo e direttore del Cesnur di Torino Massimo Introvigne.
9 Come quella del binario ferroviario 9 e 3/4 e di altri punti invisibili ai «babbani» e accessibili solo ai maghi.
10 Dt. 18, 9-14; Gal. 5, 19-20; Ef. 5, 10-12; Ap. 22, 15.
Certo - ammettono ulteriormente i patrocinatori di Potter – il rischio di intrappolamento nelle maglie di una spiritualità disordinata c’è, specie nell’odierna, impressionante babele di opinioni e credenze soggettive sulla religione, frequentemente e scriteriatamente «sincretizzate» traendo, in modo del tutto arbitrario, elementi dalle tradizioni più varie.
Ma far discendere da questo scenario critico che la lettura di Harry Potter può fuorviare bambini e ragazzi verso la magia e l’occultismo equivarrebbe a dimenticare che la migliore letteratura per la gioventù ha sempre fatto ricorso al meraviglioso e al fantastico, a streghe, draghi, pozioni e incantesimi. E se per contrastare il new age e la diffusione di atteggiamenti neognostici o neopagani si dovessero eliminare le fiabe, il mondo intero, e non solo quello dei più piccoli, sarebbe molto più cupo e spiritualmente impoverito.
Per contro, appare un poco più complesso ribattere alle accuse secondo le quali le vicende di Harry Potter inciterebbero a un soggettivismo etico-morale; accuse che traggono spunto dal fatto che il protagonista e i suoi compagni d’avventure sovente fanno ciò che vogliono - seppure per finalità buone e rivolte a contrastare l’assalto del male - in barba alle disposizioni degli adulti e, talora, finanche mentendo.
Questo è indubbiamente uno dei tratti che rendono Harry Potter così amato dai bambini, che sono quelli che sono e che di solito malvolentieri si assoggettano alla disciplina. Qualcuno potrà osservare che la descrizione di vicende nelle quali i ragazzi rompono le regole dettate dagli adulti è molto realista e si attaglia assai bene allo stile degli odierni adolescenti; ma non sempre – ribattono altri – rappresentazioni molto realistiche dell’attualità sono d’aiuto a genitori che tentano di educare i figli scoraggiandoli dal vivere una vita troppo ispirata ad atteggiamenti e culture antagonisti.
Ma non è tutto, perché a quella di incoraggiare il soggettivismo etico-morale, si somma un’altra, più ficcante accusa, basata sul rilievo che i giovani protagonisti della saga subiscono raramente, o non subiscono affatto, conseguenze negative dal loro comportamento trasgressivo, che, per quanto finalizzato al Bene, rimane comunque moralmente scorretto; e, anzi, alla fine o sono scusati o vengono addirittura ricompensati dal successo colto anche grazie alle loro mancanze, con il risvolto che la loro cattiva condotta è presentata come qualcosa d’irrilevante, quasi come un innocuo, bambinesco scherzo; e ciò diversamente da quel che di solito accade in altri racconti per ragazzi, nei quali i personaggi, buoni o malvagi che siano, quando fanno qualcosa di male ne patiscono poi le conseguenze.
Tuttavia, l’addebito fondamentale mosso alla saga di Harry Potter, non è tanto quello di istigare i ragazzi alla magia o alla trasgressione morale, quanto quello relativo al modo in cui il protagonista e i suoi amici si avvalgono dei propri poteri. Harry Potter vince le sue battaglie contro il male unicamente grazie alle proprie facoltà intrinseche, innate, e non anche in virtù di un aiuto soprannaturale o niente che assomigli alla grazia divina. In altre parole, Harry Potter e la sua compagnia di piccoli maghi appaiono sostanzialmente autosufficienti e, tutt’al più, dipendenti dalle reciproche relazioni di complicità e amicizia. La vittoria sul male è ottenuta grazie alla magia, che la fa da padrona, e il modello più o meno apertamente propugnato è quello dell’autoreferenzialità, del protagonista che crede profondamente in se stesso e che, soprattutto, ha poteri - e dunque «potere» - bastanti per sottrarre, da solo o al massimo con l’aiuto di amici, il mondo dalle grinfie dell’iniquità: la scena è totalmente esaurita dal prometeico ruolo delle creature, che, sole attrici, procurano, principalmente in virtù di doti naturali, il Bene, senza che nell’azione volta al suo conseguimento vi sia spazio alcuno per un ruolo del trascendente.
Questa visione – è opportuno evidenziarlo - è parzialmente riequilibrata dal fatto che Harry Potter non è, come vi era il rischio che fosse, un personaggio univoco e monocorde, ma, per quanto fanciullo, presenta un carattere assai sfaccettato. Ad esempio, non è certo avvolto in un bozzolo di certezze, e, nonostante i suoi poteri, ha paura del male e riesce a fronteggiarlo non soltanto appellandosi alla sicurezza conferitagli dalle sue doti magiche, ma anche alla sua intelligenza, e perché, inoltre, ne ha un’intima consapevolezza, intrattiene con esso un rapporto piuttosto complesso, con il quale deve costantemente confrontarsi, tanto da saper rinunciare, talvolta, alla vendetta e offrire al posto di quella il perdono, in tal modo, poi, superando positivamente le varie prove.
Inoltre - giova ribadirlo – è forte, molto intenso, il legame d’amicizia fra i piccoli maghi protagonisti, i quali sanno affrontare compatti, disposti al sacrificio l’uno per l’altro, pericoli, lotte e avventure, come perfetti esempi di mutuo e solidale appoggio, in intima coesione affettiva e spirituale; unendo i rispettivi sforzi per ottenere buoni scopi comuni, sembrano rappresentare l’impeto e la speranza di una gioventù in crescita, proiettata nella realizzazione dei propri sogni e nella costruzione del proprio futuro.
E, ancora, vi sono analisti i quali ritengono che al di là dei timori per gli effetti che la lettura di Harry Potter potrebbe avere sui più giovani, le avventure del piccolo mago potrebbero essere usate per risvegliare nei bambini e nei ragazzi il sentimento di una realtà più profonda e importante oltre quella naturale. Una realtà che, a ben vedere, alla fine potrebbe anche rivelarsi cristiana, se è vero – come lo è – che nella narrazione, accanto ai prevalenti richiami ad ambienti e pratiche e simboli afferenti al patrimonio folklorico dell’antica Gran Bretagna pagana, spicca il fatto che la scuola di magia frequentata da Harry Potter si allinea alla prassi di ogni altra scuola «babbana», concedendo cioè vacanze a Pasqua e a Natale. Che cosa - se davvero vuol dire qualcosa - intende significare questo dato, che in un contesto dedito all’insegnamento delle arti stregonesche vengano osservati e rispettati i periodi-chiave, cardinali della ritualità cristiana? Alcuni giudicano questo un fatto curioso e degno di approfondimento, tale da giustificare la supposizione che la realtà da indicare e far riconoscere ai piccoli lettori dietro quella fruttata dall’invenzione letteraria sia, appunto, quella evangelica.
Mentre altri recensori evidenziano che la mania dei ragazzi per Harry Potter riflette e rivela, a suo modo, l’anelito per Dio presente nell’animo umano a qualunque età. Costoro, richiamandosi ad alcune visioni cristiane 11 - secondo le quali nel cuore di ognuno c’è un «vuoto a forma di Dio» che dev’essere riempito 12 - rilevano che ogni età cerca oggetti idonei a questo fine; nei giovani e nei giovanissimi le storie fantastiche come quella di Harry Potter surrogano il solo «oggetto» - Dio - che potrebbe effettivamente adempiere allo scopo.
Certamente, le storie di Harry Potter non sono «ciò» che andrebbe veramente ricercato – ed è per questo che non pochi genitori nutrono preoccupazione per la «febbre» potteriana dei loro figli -, ma potrebbero essere usate – è il suggerimento – per introdurre i giovani lettori ad altri contesti narrativi – Tolkien, Clive Staples Lewis, Collodi e altri – dove fra quadri, sfondi, episodi impregnati come in Harry Potter di magia e di meraviglioso, emergono però, meglio e più vividamente, la presenza e il sentimento del mistero divino.
A tutto ciò si potrebbe replicare osservando che il fantastico non è tenuto ad accreditarsi dal punto di vista religioso, ma semmai soltanto da quello morale; e che comunque nella tradizione favolistica occidentale la vicenda e la religione cristiane non sono mai entrate troppo facilmente, e ciò proprio per evitare disorientanti commistioni e marcare in modo netto la differenza fra la realtà vera – della Storia intesa come univoco flusso temporale incardinato sull’evento dell’Incarnazione – e le realtà immaginate dall’uomo.
Ed è qui, a questo riguardo, che riemerge e va richiamato l’esempio del Signore del Anelli, della sua realtà fantastica, subcreata, nella quale non c’è traccia evidente né di Dio né dell’Incarnazione, ma dalla quale, però, si può in ogni dove assaporare il loro retrogusto.
Nel Signore degli Anelli, però, non c’è «solo» questo, ma molto di più: infatti, mentre altre favole hanno generalmente un lieto fine, che esprime completo ed esaustivo appagamento per la finalità ottenuta, in Tolkien il finale, sebbene sia ugualmente un successo - in quanto il male è stato sconfitto e gli eroi godono in salvo i frutti dell’impresa compiuta al servizio del Bene –, non è lieto, ma caratterizzato da ciò che l’autore stesso chiama una «tristezza benedetta e priva di ogni amarezza».
Questa chiusa – è l’ipotesi qui avanzata – è tale non soltanto per la dipartita di Frodo, Bilbo, Gandalf e degli elfi, legata alla fine dell’era degli anelli, delle storie e dei canti rievocativi e, complessivamente, di un intero mondo, consapevole di dovere ormai migrare nel ricordo e nel sogno, ma anche perché, nonostante il respiro onnipresente della trascendenza e l’eco costante della divinità immanente in tutta la narrazione, nonostante tutto ciò l’epilogo resta semplicemente un buon esito di stampo unicamente creaturale.
La storia dell’anello, infatti, si svolge in un tempo e in una dimensione carenti, non in quanto immaginari e paralleli a quelli reali, ma perché, seppure costellati di alcuni importanti indizi anticipatori, privi ancora di vere, più indicative risonanze di quell’evento – l’Incarnazione e il suo coronamento, la Resurrezione - perno salvifico di ogni realtà, primaria o subcreata che sia.
Dunque un tempo e una dimensione nei quali i protagonisti, per quanto confortati dalla vittoria nelle grandi sfide sostenute, non potevano trarre gioia se non dalle impermanenti compensazioni del loro mondo, meraviglioso, incantato, e però senza speranza, perché destinato – una volta concluso il suo ciclo – a non avere ulteriori proiezioni, come un libro in procinto di essere chiuso che nessuno avrebbe più letto.
La storia dell’anello, pertanto, non poteva, né avrebbe potuto, ancorché sancita dalla sconfitta del male, tingersi di vera felicità, perché seppure soffusa di religiosità – cristiana e dell’antica Europa pagana – avveniva in un’era in cui non era ancora stato dato nemmeno un vago annuncio di quell’avvenimento cardinale che fa della realtà un processo di scoperta dell’ultimo, supremo mistero.

11 Il riferimento, in particolare, è a Pascal.
12 E che ognuno poi di solito riempie a suo modo, il più delle volte con altri contenuti rispetto a quello per il quale l’«incavo» esiste, e in tal modo facendosi idolatra.

In Tolkien – e qui sta forse il punto nodale e contraddistintivo del suo narrare – vi è, intera, la consapevolezza della centralità delle vicende dell’Incarnazione e della Resurrezione, e del fatto che qualunque vittoria sul male, per quanto apparentemente schiacciante, quando viene ottenuta in un contesto - quale la Terra di Mezzo – in cui gli effetti spirituali di quegli eventi non possono ancora essere avvertititi, non é mai completa, né davvero appagante. Per questo, a differenza che in altre narrazioni fantastiche dove di tutto ciò vi è poca o alcuna consapevolezza, la conclusione, pur essendo un lieto fine, è pregna di malinconia.
Sembra quasi che essa voglia dire che ogni riuscita, ogni felicità o buona sorte non possono scaturire da volontà, processi ed atti puramente elfici o umani o naneschi od «hobbitali», e che nella Terra di Mezzo, in realtà, non c’è un potere autenticamente in grado di instaurare per sempre un vero Eden. Così, in quella realtà fantastica, in cui di quella beata prospettiva non vi è ancora chiara premonizione, e nella quale però il male, esattamente come nella realtà primaria, è in grado di insidiare e di farlo gravosamente, i protagonisti soffrono malinconicamente nell’intimo, perché credono di sapere che il Bene – a differenza che nella Storia – non potrà mai darsi irreversibilmente, poiché nessuno, in quel loro mondo, ha percepito o annunciato l’accadimento straordinario, di là da venire, in virtù del quale l’esistenza è già diretta verso un definitivo risanamento.
Certo, l’origine della malinconia, della «tristezza benedetta e priva di ogni amarezza» presente nel finale del Signore degli Anelli potrebbe anche essere interpretata come l’effetto della mescolanza, nell’animo dei protagonisti, fra il sentimento di quiete e di riposo, dopo la battaglia, in seno all’ambiente amico e familiare, e il discernimento che finita per sempre la fase delle imprese compiute con la morte a fianco, più nulla di così spiritualmente pregnante sarebbe potuto in futuro avvenire nelle loro vite. Perché sarebbe mancata – e pare quasi che Frodo e gli altri membri della Compagnia dell’Anello lo facciano trapelare, seppur lasciandolo inespresso - la possibilità, per essi, di combattere la sola, ulteriore battaglia degna di eroi d’un calibro come il loro: quella interiore contro le limitazioni e le carenze della sorte creaturale.
Gli abitanti della Terra di Mezzo, pur rallegrati dai frutti consolanti delle loro scelte etico-morali, dal loro essersi schierati dalla parte luminosa per arginare la minaccia dell’oscurità, sembrano perfettamente consci di ciò. Per questo, dopo tante esaltanti avventure, restano spiritualmente «feriti»: lottando per il Bene si sono avvicinati al mistero, ne hanno respirato l’aroma, ma il mistero non gli si è compiutamente rivelato. Sarà in un’altra era, in un’altra realtà, che esso si manifesterà pienamente, e solo allora anche Frodo, Sam e Gandalf saranno sollevati dalla malinconia causata dall’impossibilità di nutrire una vera speranza. Fino ad allora, poiché nessuno nella Terra di Mezzo è venuto ad annunciare che la fine non è il fine del Bene, inevitabilmente il sentimento che prevalentemente li ispira è la nostalgia per un mondo che essi credono debba svanire per sempre, irrevocabilmente cedere il passo a un altro del quale non conoscono nulla e non fanno parte.
Così, pur parzialmente consolati dai frutti delle loro scelte, i protagonisti soffrono la mancanza della cosa più importante, dell’unica in grado di conferire vera gioia: la confidanza nella prospettiva di un futuro esente per sempre dal male e pieno di quella relazione col mistero capace, fra l’altro, di sciogliere gioiosamente i nodi di ogni temporanea mestizia.
Tolkien sapeva tutto ciò molto bene ed è probabilmente per questo che la sua narrazione riserva un finale triste, sebbene non amaro: la sua subcreazione, per quanto epica, meravigliosa e affascinante, pur recandone una scintilla, non coincide con la creazione, dove, a dispetto di tutte le maculazioni e le meschinità, la speranza ha un solido fondamento. La divinità nel Signore degli Anelli è assente, nel senso che non appare, ma proprio perché è particolarmente forte in tutta la narrazione l’acuta e malinconica percezione di questa carenza, si può, proprio per questo, dire che, nella saga, quella di Dio è la presenza più forte.






CENTRO STUDI ORIENTE OCCIDENTE

Convegno: 
TROVARE DIO IN IL SIGNORE DEGLI ANELLI E IN HARRY POTTER 
Ancona, 30-31 maggio 2002

IL MONDO DI TOLKIEN E IL MONDO DELLA ROWLING
DAVID MURRAY
docente di Lingua e letteratura inglese, Università di Urbino 

Devo ammettere che prima di ricevere l'invito a questo convegno- del quale ringrazio gli organizzatori e il dott. Possedoni- non avevo pensato di leggere "Harry Potter". Così il dott. Possedoni mi ha fatto anche un piacere spingendomi ad interessarmi a questa scrittrice, la Rowling, e alle varie fonti ed imprestiti nella sua opera.
Molte sono le fonti della Rowling da rintracciare nel capolavoro di Tolkien, cioè "Il Signore degli Anelli", ma anche ne "Lo Hobbit" e queste fonti ci portano a scoprire le fonti dello stesso Tolkien.
In "Harry Potter", però, ci sono molti elementi che non hanno nulla a che fare con Tolkien e vorrei cominciare proprio da questi.
L'uso che la Rowling fa dei vari animali è parte di una tradizione secolare legata al mondo delle streghe. Nella tragedia di Shakespeare, "Macbeth", ci sono tre streghe che adoperano un gatto e un rospo come familiars, cioè come dèmoni al loro servizio e attraverso i quali possono fare gli incantesimi.
Molti ricorderanno un film di qualche anno fa dal titolo :"Una strega in Paradiso"- con James Stewart, Kim Novak e Jack Lemmon- in cui ci viene presentata una strega moderna, la Novak, che non può fare alcuna magia se non attraverso il suo strumento, cioè il gatto. Nello stesso film, Jack Lemmon, anche lui uno stregone, si diverte a spegnere le luci della strada, una alla volta, proprio come fa Dumbledore in Privet Drive.
Un altro animale nel secondo libro della Rowling è chiaramente di ispirazione Tolkieniana: mi riferisco al ragno o ragni giganti. Non dimostrano però la malignità né di quelli di Mirkwood né di Shelob e della sua antenata Ungoliant, ma sono egualmente pronti a mangiare Harry e Ron.
Quando incontriamo Harry, poco prima del suo undicesimo compleanno, ci troviamo improvvisamente nel mondo di Cenerentola. Non ci sono due brutte sorellastre, ma c'è un brutto cugino, una matrigna che è un'arpia e un capo casa al cui paragone Anastasia e Genoveffa sembrano belle e intelligenti! In Gran Bretagna la favola di Cenerentola è più conosciuta nella sua rappresentazione teatrale in pantomima, nella quale due comici popolari, un po’ come Franco e Ciccio, si travestono da brutte sorellastre. Casa Dursley con Harry che dorme nel ripostiglio sotto le scale, che deve lavorare in casa per il bene di Dudley, suo cugino, e che deve subire la violenza sia fisica che mentale della sua famiglia adottiva è proprio come Cenerentola.
Ed infine, la lettera da Hogwarts indirizzata a Harry, corrisponde alla scarpetta di cristallo di Cenerentola che le apre la porta su un futuro di felicità e successo anche se le sorellastre cercano di impedire in tutti i modi che la povera Cenerella si provi la scarpetta. Ugualmente, lo zio Vernon farà di tutto per impedire ad Harry di leggere la lettera originale e le centinaia di copie che arrivano da tutte le parti.
Quando, infine, Hagrid raggiunge a mezzanotte del suo compleanno Harry con una lettera, il "Boom" e la scossa che fanno tremare la capanna ci fanno ricordare il "Racconto di Natale", "Christmas Carol", di Dickens e l'arrivo del fantasma di Natale. E di nuovo i commenti sprezzanti di Draco Maffoy quando parla di ragazzi che "debbono rimanere a Hogwarts a Natale perché non sono i benvenuti a casa" ricordano il triste e giovane Ebenezer Scrooge, solo, dentro la scuola, per le vacanze di Natale.
Di facile individuazione sono le varie fonti del cane a tre teste, dei centauri e della pietra filosofale stessa.
Un'altra influenza o fonte a cui attinge la Rowling è "Alice", "Alice nel Paese delle Meraviglie". Il Capitolo 9 del primo romanzo della serie di Harry Potter è intitolato "Attraverso la botola" ed è preso, chiaramente, da "Attraverso lo specchio" di Lewis Carroll ed infatti la lunga caduta di Harry e dei suoi amici ricorda la lunga scivolata di Alice. Inoltre, la grande chiave d'argento che permetterà la continuazione del loro viaggio non è altro che un imprestito da Carroll; mentre i minacciosi scacchi viventi ci fanno ricordare le carte da gioco viventi in "Alice". Infatti, è la Regina Bianca che colpisce Ron, mentre in "Alice" e un'altra regina, quella di Cuori, che è sempre pronta ad ordinare la decapitazione :- "Via la testa!".
Infine, il rotolo di carta con la poesia che descrive le sette bottiglie riporta alla mente i messaggi trovati da Alice:-"Mangiami", "Bevimi"!
Gli studiosi di Letteratura inglese conoscono tutti i grandi, da Chaucer fino a Tolkien, ed alcuni di loro si specializzano in qualche scrittore minore, come Heywood, Kingsley, Braine, ma nessuno si interessa a Captain A.E. Johns, Rachmael Crompton o ad Enid Blyton, né conoscono gli eroi di generazioni di giovani inglesi, eroi come: Biggles, Bunter e William; e sono proprio i racconti di Enid Blyton che permeano il mondo di Harry Potter. La Blyton - era una scrittrice prolifica nel periodo che va dagli Trenta agli anni Cinquanta ed era anche autrice di programmi televisivi per ragazzi come, ad esempio, "Muffin il mulo". I suoi romanzi più popolari erano basati sulle avventure di un gruppo di ragazzi e ragazze di 11-12 anni, "the famous five", i famosi cinque, o "the secret seven", i segreti sette. In queste serie di romanzi, gli adulti sono descritti come un po' ottusi, non vedono il pericolo, non riconoscono i cattivi e così tocca ai ragazzi salvare la collana di brillanti, o scoprire dov'è nascosto il testamento che lascerà l'eredità al buono e meritevole e non al suo losco cugino. Infatti, alla fine del secondo romanzo della Rowling, vengono riprodotte alcune lettere di bambini entusiasti di Harry Potter, tra le quali vi è quella di una bimba di 8 anni che nomina la Blyton.
La Rowling non può non aver letto Enid Blyton e il mondo di Hogwarts, un collegio misto, e i suoi abitanti, lasciando da parte la magia, potrebbero inserirsi senza stonare affatto, in un romanzo dei Famosi Cinque.
L'influenza di Tolkien si avverte subito, già dalla prima pagina di "Harry Potter e la Pietra Filosofale" in cui troviamo le parole di Bilbo e il mondo degli hobbit. Anche lui è "perfettamente normale" e non ne vuol sapere di avventure "grazie tante". Alla pagina seguente incontriamo Albus Dumbledore e, cominciando dal suo modo di vestire, e il suo ruolo in tutto il romanzo (protettore dei piccoli), richiama Gandalf; mentre i ragazzi, Harry, Ron, Neville e Hermione sono i quattro hobbit della "Compagnia dell'Anello". Gandalf fuma una pipa, non un gusto da stregone, ma una cosa appresa dagli hobbit; mentre Dumbledore mangia un sorbetto di limone, un tipo di dolce del nostro mondo umano quotidiano, un dolce che Minerva Mc Gonagall ignora. Un altro punto in comune sta nel fatto che entrambi i maghi riconoscano il potere superiore del male: Dumbledore dice:-" Voldemort aveva poteri che io non avrò mai". E Gandalf, per contro, dice:-"Io sono Gandalf, Gandalf il bianco, ma il nero è sempre più forte".
Ancora, quando Harry si sveglia dopo la lotta contro Quirrell trova Dumbledore accanto al suo letto e tutta la scena somiglia marcatamente al risveglio di Frodo a Rivendell dopo aver salvato l'anello dalle grinfie degli emissari di Sauron proprio come Harry salva la pietra filosofale dalle grinfie dell'emissario di Voldemort. La conversazione stessa fra Dumbledore e Harry ci rimanda alle domande e alle risposte di Frodo e Gandalf. Infatti, entrambi i maghi parlano dello sforzo compiuto per salvare l'oggetto prezioso e del fatto che sia Harry che Frodo abbiano rischiato la morte.
Ad Hogwarts ci sono le feste di Natale e di Pasqua, ma non viene indicata nessuna religione. Neanche ne "Il Signore degli Anelli" si parla di una religione con una divinità specifica. In Tolkien viene spesso nominata Elbereth (Varda), ma lei, come la Madonna, viene onorata non adorata. Però in Tolkien, come nella Rowling, l'idea di un essere supremo, un potere benefico al di sopra del mondo normale non manca. Gandalf dice., per esempio, "Credo che Bilbo sia stato destinato a trovare l'anello" mentre Hagrid, parlando dell'incapacità di Voldemort di uccidere Harry, commenta:-"Qualche cosa successe quella sera che egli non aveva calcolato: io non so cosa fosse, nessuno lo sa". Qui, chiaramente c'è la consapevolezza di una mano guida, un mistero da accettare e basta.
Fra le varie fonti del mondo di Tolkien la più importante è il poema anglosassone "Beowulf", dove Dio viene spesso definito "l'Arbitro", "il Creatore", "l'Elmo del Mondo" ma in un modo da far pensare ad un amanuense cristiano che inserisce Dio a forza in un testo di origine e ambientazione nordico-pagana.
Chi non viene mai nominato in Beowulf è Cristo. Però possiamo vedere Beowulf come Cristo ed anche Frodo ed anche Harry. Tutti e tre affrontano la morte per salvare il loro mondo e la gente di quel mondo. Beowulf muore avvelenato, dopo aver ucciso il drago, salvato il suo popolo e regalato a loro un enorme tesoro. Frodo affronta i Nazgul, Shelob e tutto il potere malefico di Sauron. Non perde la vita, ma perde la sua pace: egli ha salvato lo Shire ma non per se stesso. E' ferito e non può godersi la sua vittoria e il suo trionfo, deve lasciare tutto ciò che ama e andare all'Ovest con Bilbo e gli Elfi.
Harry rischia anch'egli la vita per gli altri, ma alla fine, "tutti vivono felici e contenti?" Non è così semplice perché è lui che riesce a distruggere il potere di Voldemort e a tenere Quirrell a bada. Ma lui è in grado di farlo grazie al sacrificio, la morte, della madre, la donna che lo ha messo al mondo, un bambino con il potere di spezzare la forza di Voldemort. La Rowling non spiega perché Voldemort decida di ammazzare i Potter. Forse perché, come Erode, consapevole di un potere in grado di contrastare il suo, cerca di distruggere il neonato, ucciderlo in germe.
Voldemort ha molto di Sauron: gli occhi rosso vivo, la ricerca di un corpo per riprendere forma, e viene detto di Voldemort:-"Si dice che sia là fuori, in attesa del momento opportuno". Anche Sauron aspettava il suo momento opportuno per tornare a Barad-dûr. Sauron non può essere ucciso perché è un maia, ma nel vuoto dello spazio lui non rappresenta nessun pericolo per il futuro della Terra di Mezzo, ma Voldemort sì, egli è un pericolo sempre in agguato; e così può essere visto come un essere a metà strada tra Sauron e Melkor .
I personaggi di Tolkien sono numerosi e diversi l'uno dall'altro, un po’ come quelli di Dickens. A proposito di Dickens, c'è da notare che il Sam de Il Signore degli Anelli deve molto a Sam Weller dei "Pickwick Papers". Questa figura del servo personale, devoto al suo padrone il quale, pur non avendo un'istruzione pari a quella del suo padrone, riesce a vedere le cose in modo pratico, quel che in inglese è definito "street-wise", cioè ha una conoscenza del mondo che hanno i furbi, i rubagalline, gli imbroglioni che ti vendono un orologio d'oro puro a diecimila lire. Questo tipo di servo è tradizionale nella letteratura di tutto il mondo: è Sancho Panza, Figaro, il Caporale Trim e, come già detto, Sam Weller... Frodo, chiaramente, non è un Mr. Pickwick la cui ingenuità ci fa chiedere come possa essersi arricchito nel mondo del commercio se Pickwick e i suoi compagni a volte non sono altro che la caricatura del credulone. La somiglianza, semmai, tra Frodo e Pickwick sta nella loro onestà e nel senso di ciò che è giusto. La pietà che Frodo mostra nei confronti di Gollum è simile a quella di Pickwick con Jingle.Sam Weller non si fida mai di Jingle, però, e ci fa capire la sua avversione per il piccolo truffatore proprio come Samwise non nasconde la sua antipatia per Gollum né la sua paura della violenza di Gollum, non contro di lui, ma contro il suo amato padrone Frodo.
Il personaggio della Rowling che in qualche modo corrisponde ai due Sam, di Tolkien e Dickens, è Hagrid, specialmente nel modo di parlare, perché è un cockney, proprio come Sam Weller e Samwise. Che Hagrid sia cockney viene evidenziato dal suo uso della parola "Blimey", una corruzione cockney e soltanto cockney dell'antica imprecazione:"Che Dio mi accechi!" Per di più parla un inglese spesso sgrammaticato.Dice, ad esempio:-"People who was on his side", cioè letteralmente "persone che era dalla sua parte" ; oppure "Never made things happen when you was scared or angry?" cioè "Mai fatto succedere delle cose quando tu era impaurito o arrabbiato?" Tra parentesi, mentre in Dickens e in Tolkien non v'è alcuna nota stonante nel modo di parlare dei due servi giacché non avendo avuto molta istruzione fanno un mestiere umile. Nel libro della Rowling, invece, Hagrid, prima di essere iscritto a Hogwarts, ha fatto sei anni di scuola elementare e, inoltre, non viene espulso da Hogwarts fino al terzo anno. Perciò non manca di istruzione scolastica, ma nessuno dei ragazzi che incontriamo nella scuola parla come lui e per di più è in costante contatto verbale con i professori e con gli alunni a Hogwarts.
Come già detto i personaggi di Tolkien sono numerosi ed ogni lettore ha il suo preferito: che sia Gandalf, Samwise, Tom Bombadil, Bilbo e così via. Personalmente il mio, anzi la mia, è Galadriel per la sua bellezza, purezza, e per la sua visione limpida del mondo e della gente del mondo.
Faramir darebbe la corona ad Arwen Evenstar; ma io, come Gimli figlio di Gloin, scelgo la mattina che sta per scomparire.
La fonte per Galadriel è incerta, se non rintracciabile tra le figure indistinte di Wealtheow e Hygd, regine nel mondo di Beowulf. La Rowling non ci offre nessuna figura femminile come Galadriel, ma lo specchio di Galadriel c'è. La Regina degli Elfi, ricorderete, invita Sam e Frodo a guardare nel suo specchio, un recipiente pieno d'acqua. Sam vi vede la distruzione di Bag-end e Frodo vede l'occhio di Sauron, rosso e malefico. Galadriel spiega che le visioni nello specchio sono solo cose che potrebbero succedere e tutto è incerto.
Nello specchio della scuola Hogwarts, Harry vede tutta la sua famiglia, il passato; mentre Ron vi vede l'immagine di se stesso più adulto, diventato capitano della scuola: il futuro.
Dumbledore spiega, come Galadriel, che lo specchio del desiderio "non ci dà ne la conoscenza né la verità". "uomini...davanti ad esso...sono impazziti, non sapendo se quel che mostra è vero o appena possibile".
Quando incontriamo Harry Potter per la prima volta non è che un mucchio di coperte di lana davanti ad una casa. Questo inizio della sua vita non promette un gran futuro, una carriera di fama e di successo. Nonostante tutto diverrà uno splendido mago.
In Tolkien non ci sono bambini abbandonati con un grande destino davanti a loro, nonostante tutto. Ma nel "Beowulf", grande fonte di ispirazione per Tolkien, il bambino abbandonato c'è: è Scyld, che come Mosè, giungerà sulla costa danese portato dalle acque in una cesta di legno e diverrà poi il fondatore degli Scylding, i Danesi della Lancia, mentre Mosè diventerà il Principe d'Egitto e il capo del suo popolo che condurrà attraverso vicissitudini, pericoli e miracoli fino alla terra promessa e alla distruzione dei Filistei.
Se guardiamo il primo romanzo di Tolkien, Lo Hobbit - e personalmente ritengo che non ci si possa tuffare dentro Il Signore degli Anelli senza aver letto la prima opera - possiamo tracciare la storia di Beowulf, quasi punto per punto. Alcune indicazioni saranno sufficienti a mostrare il parallelo tra le due opere.
Bilbo con 14 compagni si mette in cammino per riconquistare il tesoro dei nani custodito dal drago Smaug. Beowulf attraversa il mare con 14 compagni per restituire ai Danesi il loro palazzo dorato, Heorot, infestato da un mostro cannibale, Grendel. L'eroe nordico affronta anche l'oscura perigliosità dei mari combattendo contro i mostri marini. Bilbo, invece, affronta l'oscurità di Mirkwood combattendo contro i mostri terrestri, i ragni giganti.
Grendel e la madre, entrambi cannibali, sono creature malefiche peggiori di quelle che incontra Bilbo, ma Grendel è Caines cynne (= della razza di Caino) proprio come Gollum , il quale -e qui anticipiamo Il Signore degli Anelli - ha ucciso suo fratello per conquistare il suo "tesoro" ed ha continuato ad uccidere e a mangiare i suoi simili : un cannibale pari a Grendel e alla madre. Inoltre, le creature che abitano la landa nebbiosa dove Grendel trova rifugio sono gigantas (= giganti) v.112 e orcneas (= spiriti maligni) v.113. I Troll di Bilbo sono esseri enormi, se non proprio giganti; mentre la somiglianza tra gli orcneas anglosassoni e i goblin (orchi) di Tolkien è innegabile e lampante. Anche i Troll mangiano carne umana ed anche se il loro linguaggio e i loro modi somigliano grottescamente a quelli di un buttafuori di un pub dei sobborghi londinesi, la loro innata malvagità non può essere sottovalutata.
Grendel, assassino amorale, giungeva ad Heorot sempre quando niht ofer ealle (=la notte avvolgeva tutto) v.649. Il buio, amico e complice di Grendel, è preferito dai goblin rispetto al giorno: "Ma a loro non piace il sole: fa tremare le ginocchia e girare la testa".
I rifugi bui e segreti dei Goblin si trovano sotto le Montagne Nebbiose e di lì escono furtivamente, per le loro maligne imprese, dopo il tramonto perché essi, così come i Troll, non sopportano la luce del sole. E Grendel ci viene descritto così:

_a com of more under misthleo_um 
Grendel gongan, Godes yrre bær.
Poi dalla brughiera sotto le pendici nebbiose 
Grendel avanzò: indossava l'ira di Dio

L'oscurità e la nebbia sono elementi simbolici in tutte e due le opere, mentre Grendel che divora un guerriero sotto gli occhi di Beowulf ricorda quello che fanno i goblin ai pony della compagnia di Bilbo: " perché i Goblin mangiano cavalli, pony ed asinelli (ed altre cose molto più terribili).
"Le cose molto più terribili" - e di nuovo anticipiamo Il Signore degli Anelli - comprendono anche la carne umana; quindi il legame dei goblin con Grendel è ancor più forte.
Gollum, prima di tentare di uccidere Bilbo, suggerisce una gara di indovinelli. Questa gara ricorda gli scherni di Unfer_ nel palazzo di Heorot. Il poeta anglosassone scrive che Unfer_ "onband beadurune" = sciolse rune di guerra, una kenning per indovinello, come Tolkien ci spiega altrove. Unfer_ tenta di ridicolizzare Beowulf disprezzando la forza fisica dell'eroe, ma tocca proprio a lui essere preso in giro quando Beowulf gli dice che le sue oltraggiose parole sono quelle vuote di un povero ubriaco che trova il suo coraggio in fondo ad un bicchiere. Questo tipo di combattimento verbale, chiamato flyting, fa parte della tradizione celtico-scandinava. Lo scopo di queste sarcastiche battute, più o meno feroci, era quello di divertire gli ascoltatori, ma c'è ben poco da ridere nell'accusa finale che Beowulf lancia contro Unfer_ (vv.587-589):

... ... ... _u _inum bro_rum to banan wurde 
heofodmægum; _æ _u in healle scealt
werh_o dreogan. ........................
......... tu dei tuoi fratelli sia stato l'assassino
dei tuoi più stretti congiunti; e per questo tu all'inferno 
sconterai la dannazione. ...........................….

Ugualmente il "gioco" degli indovinelli fra Bilbo e Gollum non è certo un passatempo. Questa gara si concluderà o con la libertà di Bilbo ( noi, come lui, abbiamo delle riserve circa la buona fede di Gollum), oppure Bilbo andràin pasto al suo avversario. Al termine del flyting con Unfer_, il destino di Beowulf sarà lo stesso di Bilbo. Un punto importante da non ignorare è che pure Unfer_ è un fratricida , quindi anche lui della razza di Caino.
In tutte e due le opere i draghi ci vengono descritti dapprima tranquilli, sdraiati sul proprio cumulo
di tesori ( il tesoro viene indicato nella letteratura nordica antica con una kenning che tradotta significa "il giaciglio del drago") fin quando un ladro penetra all'interno della loro tana per rubare una coppa d'oro. Il ladro del Beowulf spera che con questo regalo il suo signore gli perdonerà qualche sua mancanza. Ugualmente , Bilbo ruba la coppa non per sé stesso , ma per portarla al suo capo Thorin e agli altri nani per riuscire a far cambiare l'opione che hanno di lui e delle sue capacità : "... altro che più un bottegaio che uno scassinatore! La smetteranno finalmente".
Né un ladro né l'altro rubano per ragioni di guadagno personale, ma puramente per ristabilire il loro ruolo nella società.
Altri due poemi anglo-sassoni da ricordare perché fonti importanti dell'opera Tolkieniana sono "Christ", "Il Cristo", di Cynewulf, e "The Dream of the Rood", "Il sogno della Croce".
Ne "Il Cristo" leggiamo:

Earla Earendel Engla Beorhtast
Offer Middangeard Monnum Sended.
= Salve Earendel, angelo più luminoso, 
Sulla Terra di Mezzo inviato agli uomini.

Questi due versi contengono molto del mondo che Tolkien ha creato e non ritengo abbiano bisogno di ulteriori commenti.
L'altro poema, però, "Il Sogno della Croce", anche se in maniera meno evidente, ha una grande importanza, non tanto per il linguaggio, ma per la visione dell'eroe nordico. Qui il poeta anglosassone racconta di un sogno in cui ha visto una croce ricoperta di gioielli e di ori, ma tra questi ha potuto scorgere macchie di sangue. E la croce parla e racconta del suo destino: quello di portare il corpo esanime di Cristo Redentore. La descrizione che la croce fa del Cristo non è quella di un Gesù mite, pallido e sofferente, tipica dell'iconografia prodotta dagli artisti, dal Rinascimento in poi. La croce, invece, ce lo descrive come l'eroe nordico par excellence; per esempio, dice:
"Il Signore dell'Umanità si affrettò con coraggio ad arrampicarsi sulla croce" oppure "Il Giovane, Dio Onnipotente, si spogliò, forte ed imperterrito"
e ancora "Si arrampicò sul vile patibolo,... Lui, coraggioso...perché desiderava
redimere l'Umanità"
e anche "Il Re potente...il Signore delle Vittorie"
In questa visione del Cristo due sono le cose che colpiscono:
- la prima è l'insistenza del poeta sulla statura eroica del Principe, Cristo, nell'affrontare la morte ; e
- la seconda è che Cristo accetta questa morte, questo sacrificio, per salvare il suo popolo, tutta
l'umanità. Il dovere e l'onore di un principe, di un eroe, sta nel difendere il suo popolo anche al prezzo della propria vita.
L'ideale di sacrificio, di abnegazione, la rinuncia a ciò che si ha di più caro per il bene altrui, permea l'intera opera di Tolkien quanto le opere dei poeti anglosassoni da lui tanto amati.
Nella penultima pagina de "Il Signore degli Anelli", Frodo dice a Sam: -"Io ho cercato di salvare lo Shire e l'ho salvato, ma non per me. Spesso deve essere così, Sam, quando le cose sono in pericolo: qualcuno deve rinunciarci, perderle, così che gli altri possano conservarle".
Di tutte le cose che Tolkien ci dice, che ci vuole insegnare, l'ideale del sacrificio per il bene altrui non è certo tra le minori. Il sacrificio e la morte di Boromir - e lui sarà l'unico membro della Compagnia a non godere dell'ultima vittoria contro Sauron - è quello di un eroe, direi un eroe tragico, la cui morte serve anche a riscattarlo dal suo peccato. Il sacrificio e la rinuncia, dunque. E tra i personaggi de "Il Signore degli Anelli" il personaggio che più mi commuove per la sua rinuncia è Gimli, figlio di Gloin. Dire che Gimli si innamora di Galadriel vuol dire banalizzare il suo sentimento, fino ad allora sconosciuto al cuore del nano. Gimli scopre, proprio là dove si aspettava freddezza e antipatia, bellezza, purezza e comprensione al di là di ogni sua più rosea immaginazione, e dice:
-"Ho guardato per l'ultima volta quella che era la più bella...Ora ho subìto la peggior ferita a causa di questa separazione".
Ma Legolas gli risponde:
-"Così vanno le cose: trovare e perdere... Ma io ti considero beato, Gimli, figlio di Gloin, giacché la tua perdita tu l'accetti liberamente quando avresti invece potuto scegliere altrimenti. Ma tu non hai abbandonato i tuoi compagni!"
Questo codice d'onore e l'accettazione del sacrificio mostrano la nobiltà d'animo di Gimli pari al sacrificio e alla morte di Boromir.
Per concludere, per quanto riguarda Tolkien, in questa occasione mi sono limitato per ragioni di tempo ad esaminare soltanto tre poemi anglosassoni. Ma nemmeno due o tre anni di convegni sarebbero sufficienti ad individuare e analizzare le miriadi di influenze e le fonti che hanno contribuito al mondo di Tolkien e quindi all'opera di chi a lui si è ispirato.






CENTRO STUDI ORIENTE OCCIDENTE

Convegno: 
TROVARE DIO IN IL SIGNORE DEGLI ANELLI E IN HARRY POTTER 
Ancona, 30-31 maggio 2002

TRA FONDAMENTALISMO E MAGIA: LA STRANA CONTROVERSIA SU HARRY POTTER
MASSIMO INTROVIGNE
Cesnur (Centro Studi Nuove Religioni) 

Per lo studioso di scienze sociali, la vera notizia non è il successo di Harry Potter ma l’attacco contro Harry Potter, dove si incontrano due strange bedfellows, o strani compagni di viaggio: l’attacco, tipico di una certa sinistra elitaria e snobistica, alla cultura popolare; e la manifestazione aperta, per la prima volta in Italia, di idee fondamentaliste che filtrano in alcune frange cattoliche dal fondamentalismo protestante di lingua inglese e che fino a oggi non avevano avuto, nel mondo cattolico, grande successo. Esaminiamo separatamente i due attacchi.

HARRY VISTO DA SINISTRA: GLI EPIGONI DELLA SCUOLA DI FRANCOFORTE

Per una certa critica di sinistra, oggi vestita di panni no global, il fenomeno Harry Potter rappresenta l’ennesimo tentativo di manipolare le masse – e tanto più i bambini – offrendo loro prodotti anglo-americani che ultimamente educano a valori di tipo reazionario e capitalistico. La critica non è nuova, anzi è così vecchia che sembrava passata di moda.

Nella sua versione moderna, il dibattito sulla cultura popolare 1 nasce con una domanda piuttosto difficile cui gli studiosi di scienze sociali tedeschi degli anni 1930, nella grande maggioranza più o meno marxisti, non riuscivano a rispondere facilmente. Secondo la teoria marxista il nazismo avrebbe dovuto reclutare soprattutto borghesi, impegnati a difendere i loro interessi di classe. Invece, era sufficiente aprire le finestre per rendersi conto che molti degli attivisti nazisti che sfasciavano le finestre degli istituti dove lavoravano quegli studiosi venivano dal mondo operaio o in genere dai ceti più disagiati. Com’era possibile? Intorno al tentativo di rispondere a questo quesito nasce una collaborazione fra psicanalisti freudiani – in particolare Paul Federn (1871-1950) e i giovani Erich Fromm (1900-1980) e Wilhelm Reich (1897-1957) – e studiosi di teoria politica (tra cui Max Horkheimer, 1895-1973, e Theodor Wiesegrund Adorno, 1903-1969), che è alle origini dell’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte, cioè della Scuola di Francoforte. Questi studiosi elaborano un modello in tre parti che dovrebbe spiegare coma nasce la «personalità autoritaria». Alle origini c’è la repressione sessuale nell’infanzia, che fissa l’individuo nelle fasi orale e anale impedendo l’ordinato passaggio alla fase genitale. Tale repressione – che è precisamente più diffusa nei ceti disagiati – prepara al sadismo e al masochismo anche nelle loro versioni ideologico-politiche: masochismo come sottomissione al capo, sadismo come violenza verso gli oppositori. In secondo luogo, la personalità autoritaria – già preparata dalla repressione infantile – è coltivata da una manipolazione culturale operata da tre agenzie: la religione (nei cui confronti sono riprese le critiche freudiane, anche se più tardi Fromm distinguerà fra una variante autoritaria della religione e una «umanistica»), gli slogan patriottici che riducono la politica a uno schema rozzo di opposizione fra «noi» e «loro», e la cultura popolare (ben prima di Harry Potter, sono presi di mira soprattutto i romanzi western venduti a pochi marchi e diffusi fra gli operai in Germania). In terzo luogo – certo, senza una consapevolezza né uno studio scientifico – la propaganda autoritaria si inserisce su questa preparazione e manipola ulteriormente l’individuo reclutandolo come militante nazista.

Prima della Seconda guerra mondiale questi studiosi – tutti oppositori del regime, e quasi tutti ebrei – sono costretti a emigrare negli Stati Uniti, dove ricostruiscono l’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte alla Columbia University di New York. Qui le loro ricerche

1 Cfr. sul punto il mio Il lavaggio del cervello: realtà o mito?, Elledici, Leumann (Torino) 2002.

godono di finanziamenti e appoggi del governo americano, il quale però – a guerra finita – chiede loro di concentrarsi non tanto su come nasca la personalità autoritaria nazista (che ormai non sembra più un pericolo) quanto quella comunista. Alcuni studiosi – essi stessi comunisti – rifiutano. Altri collaborano con teorici del totalitarismo che erano anch’essi espatriati dall’Europa di lingua tedesca, come Hannah Arendt (1906-1975) e Carl Friedrich (1901-1984) in iniziative come il Progetto di Berkeley (1949-1950) e la Conferenza di Boston (1953), le quali producono una versione rivista del modello, legata in particolare al nome di un ulteriore espatriato, lo psicanalista austriaco Erik Homburger Erikson (1902-1994). Rimane fermo il primo stadio del modello (la repressione sessuale nell’infanzia), sia pure con qualche distinguo. Quanto al secondo stadio, certo tenendo conto anche di quanto l’opinione pubblica e l’ambiente culturale americano erano disposti ad accettare, si precisa che non tutta la religione prepara all’adesione al totalitarismo, ma solo quella definita come «fondamentalista» o «settaria»; non tutta la cultura popolare, ma solo quella rozza e di bassa lega (l’industria cinematografica, potentissima negli Stati Uniti, è ampiamente risparmiata e si attaccano piuttosto la letteratura per l’infanzia ad alte tirature e i fumetti, i comics); non tutte le forme di patriottismo e di nazionalismo, ma solo quelle spurie come il nazismo o il comunismo. I nemici diventano quelle che potremmo chiamare le tre C: i cults (la parola inglese equivalente funzionalmente a «setta»), i comics e i comunisti. Quanto – è il terzo stadio del modello – alla descrizione della manipolazione totalitaria, essa si concentra tramite gli studi, finanziati dal governo americano, di due allievi di Erikson peraltro di idee politiche piuttosto diverse tra loro, entrambi viventi, Robert Jay Lifton ed Edgar H. Schein, sulle attività del comunismo, e in particolare del maoismo cinese.

La teoria che Lifton chiama (l’espressione è di Erikson) del «totalismo» e Schein della
«persuasione coercitiva» è strettamente legata a premesse tipiche della Scuola di
Francoforte, ma fa parte della scienza sociale. Diverso è il discorso per la sua versione
caricaturale presentata dalla propaganda del controspionaggio americano durante la
Guerra fredda e legata all’espressione «lavaggio del cervello», coniata nel 1950 da Edward
Hunter (1902-1978), un agente della CIA che usava come copertura il lavoro di giornalista
presso il Miami Daily News. Hunter sosteneva di avere sentito parlare del «lavaggio del
cervello» da un giovane cinese esule in Indocina; in realtà, Schein avrebbe più tardi
accertato che l’espressione non esisteva all’epoca nella lingua cinese ed è assai più
probabile che Hunter la abbia coniata sulla base di un brano sul «lavaggio completo» della
personalità dei cittadini da parte di un regime totalitario contenuto nel romanzo 1984 di
George Orwell (1903-1950), pubblicato solo un anno prima, nel 1949 2. Nella versione della
CIA, una discussione complessa era ridotta alla metafora – menzionata dal direttore della
stessa agenzia, Allen Welsh Dulles (1893-1969), in un discorso del 1953 – secondo cui il
cervello umano funziona, molto semplicemente, come un giradischi, e i comunisti hanno
scoperto come togliere il disco sostituendolo con un disco nuovo, operazione – assicurava
il direttore della CIA – che per di più poteva essere fatta in pochi giorni, se non in poche ore 3.

Le teorie – che non vanno confuse tra loro – della persuasione totalitaria e del lavaggio del cervello nascono, così, con riferimento al nazismo e poi al comunismo, ma con echi di critiche alla religione e alla cultura popolare, che a loro volta manipolerebbero i giovani predisponendoli a diventare più tardi preda di ideologie autoritarie. Dichiarando di applicare la teoria accademica del “totalismo”, ma in realtà con accenti che ricordano la propaganda della CIA in tema di “lavaggio del cervello” comunista, uno psichiatra politicamente orientato a sinistra, Fredric Wertham (1895-1981), pubblica nel 1954

2 Per tutti i riferimenti, cfr. ibid., pp. 52-53. Nel testo si troverà una bibliografia essenziale di tutti gli autori citati nel prosieguo.
3 Cit. in ALAN W. SCHEFLIN – EDWARD M. OPTON, JR., The Mind Manipulators. A Non-Fiction Account, Paddington, New York-Londra 1978, p. 437.

Seduction of the Innocent 4, un volume di enorme successo in cui attacca la letteratura per l’infanzia e in particolare i fumetti, la cui influenza determinerà importanti sviluppi giuridici sia negli Stati Uniti, sia in Inghilterra5. Gli studi sulla cultura popolare nascono così, quando l’università comincia a interessarsene negli anni 1950, come studi contro la cultura popolare, a suo modo “oppio del popolo” e fomite di indottrinamento delle masse.

Nel 1964, Umberto Eco pubblica – dieci anni dopo l’opera di Wertham – uno studio destinato a rivoluzionare l’accostamento accademico alla cultura popolare, non solo in Italia: Apocalittici e integrati 6. Eco – chiudendo i suoi personali conti con la Scuola di Francoforte – denuncia l’accostamento prevalente nei confronti della cultura popolare come “apocalittico”, facendosi beffe di una vulgata secondo cui letteratura per l’infanzia, televisione e fumetti lavano il cervello alla classe operaia; nello stesso tempo prende le distanze anche dagli “integrati”, cioè da quegli studiosi soprattutto americani che – a mezza strada fra l’accademico e il fan – esprimono il loro affetto e la loro nostalgia per certi personaggi e certi prodotti cultural-popolari senza preoccuparsi di collocarli nel contesto sociale. Anche se i gusti personali di Eco influenzano l’ultima parte del saggio, Apocalittici e integrati apre un’epoca nuova per lo studio della cultura popolare – in particolare della letteratura per l’infanzia di largo consumo e dei fumetti – e favorisce la nascita in numerosi paesi europei di cattedre e istituti universitari dove ogni fenomeno o prodotto è studiato secondo le sue caratteristiche specifiche, senza pregiudizi “apocalittici”.

Oggi, in un’epoca di crisi della sinistra, si levano voci revisioniste rispetto a quello che nel 1964 era il revisionismo di Eco: le recensioni malevole contro Harry Potter sono tipiche di questo retrenchment di una sinistra in cerca di identità, che pensa di trovarla tornando all’antico, riproponendo il teorema di Francoforte nella sua versione più stereotipa, e denunciando l’“irrazionalismo” della cultura di massa secondo modelli che risalgono agli anni 1930.

HARRY VISTO DAI FONDAMENTALISTI: I TALEBANI ITALIANI

Già il dottor Fredric Wertham, personalmente libero pensatore e di sinistra, aveva dovuto allearsi nella sua battaglia per restaurare una qualche forma di censura sulla letteratura giovanile con la “Lega della Decenza” cattolica e consimili organizzazioni protestanti, verosimilmente assai poco consapevoli delle premesse culturali che ispiravano il discorso dello psichiatra di New York. In Italia un’eco delle polemiche americane si ritrova in proposte di legge che negli anni 1949-1953 (dopo – il tema è di sorprendente attualità – delitti atroci commessi da minorenni) un gruppo di deputati democristiani guidati da Oscar Luigi Scalfaro introduce reiteratamente in Parlamento per la censura sulla letteratura per l’infanzia e i fumetti, accusati di trasformare inconsapevolmente i ragazzini in criminali o in “comunisti”. Curiosamente, Scalfaro se la prende particolarmente con il genere western e con gli albi a fumetti de Il piccolo sceriffo, non si sa con quanta consapevolezza di riprendere a sua volta temi tipici della prima Scuola di Francoforte. La campagna di Scalfaro non porta ad alcun esito per la vigorosa opposizione non solo della grande stampa, ma di una parte dello stesso mondo cattolico, guidata dallo scrittore Giovanni Guareschi (1908-1968), certamente anticomunista ma, per disgrazia di Scalfaro, anche fan dei fumetti western e de Il piccolo sceriffo. Guareschi, come gli è consueto, si mette anche nei guai per una vignetta un po’ osée, dove due prostitute – rispettivamente

4 FREDRIC WERTHAM, Seduction of the Innocent, Rinehart & Co., New York – Toronto 1954.
5 Cfr. sul punto AMY KISTE NYBERG, Seal of Approval: The History of the Comics Code, University Press of Mississippi, Jackson 1998.
6 UMBERTO ECO, Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Bompiani, Milano 1964.

madre e nonna di un ragazzino – si lamentano della maleducazione del piccolo mentre esercitano la loro professione sulla strada. Deve essere colpa dei fumetti western – concludono – augurandosi che il governo li vieti 7.

Oggi è questo movimento che – prendendo a prestito categorie sociologiche di solito applicate alla critica militante delle minoranze religiose (definite dagli oppositori “sette”) – potremmo chiamare “contro Harry Potter”, distinguendolo da quello “anti-Harry Potter” laico da cui pure attinge elementi e categorie, si manifesta soprattutto con vigore, e accusa Harry Potter di essere un cattivo maestro e di avviare i ragazzini alla magia e ai movimenti magici, che - si afferma - sarebbero in grande espansione. I suoi argomenti, che ricorrono spesso su una certa stampa cattolica, qualche volta sfiorano il ridicolo: mi si consentirà, quindi, una trattazione più “leggera” rispetto all’esame precedente delle teorie, almeno di diversa dignità culturale, che derivano dalla Scuola di Francoforte. Si tratta qui di una deriva non tanto “di destra” (senza volere entrare qui nel complesso dibattito sulla definizione di “destra”) quanto, piuttosto, fondamentalista.Tra le molte definizioni del fondamentalismo correnti nelle scienze sociali c’è quella - qui pertinente - secondo cui la sua caratteristica specifica è la negazione dell’autonomia delle realtà secolari, in particolare della cultura (e della politica), nel loro rapporto con la fede. Per il laicista, tra fede e cultura ci deve essere totale separazione: una sorta di muraglia cinese che nega al credente il diritto di far diventare la sua fede cultura e di giudicare la cultura alla luce della fede. Per l’uomo religioso non fondamentalista, tra fede e cultura non c’è separazione: vi è tuttavia distinzione, nel senso che la cultura, come tutte le realtà terrene e secolari, ha una sua sfera di autonomia, pur potendo e dovendo essere giudicata alla luce della fede e della morale. Per il fondamentalista, fede e cultura coincidono in una sorta di fusione - che chi fondamentalista non è valuterà facilmente come confusione -, per cui ogni modo di produzione della cultura che non parta esplicitamente dalla fede sarà considerato necessariamente sospetto, se non demoniaco.

Il problema - per rimanere alle sue dimensioni sociologiche - è che, almeno dal Settecento e certamente dalla Rivoluzione francese, la cultura popolare (per tacere di quella colta) è ampiamente prodotta a prescindere dalla Chiesa e dalla comunità cristiana, come cultura non anzitutto indirizzata alla missione e alla formazione ma al consumo. Rifiutare pregiudizialmente tutta la cultura popolare moderna e postmoderna in quanto i suoi modi di produzione non sono religiosi è una conclusione cui il fondamentalismo, concepito in modo rigoroso, non può sottrarsi: ma è anche una conclusione che chiude il credente fondamentalista in un ghetto e lo condanna ad alimentarsi di quel poco che è ancora prodotto dall’interno della sfera religiosa.

Alcuni neo-talebani impegnati nella campagna contro Harry Potter ci assicurano che la sua autrice non è credente, mentre - per esempio - John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973), il creatore de Il Signore degli Anelli, era invece un buon cattolico. So poco delle convinzioni religiose della signora Rowling; mi sembra però che ci sia qui una notevole confusione fra intenzione dell’autore e intenzione dell’opera, che pure sarebbe facile da chiarire senza neppure bisogno degli studi sull’interpretazione di Umberto Eco8, con il semplice ricorso alla filosofia classica e al buon senso. Intentio auctoris e intentio operis non coincidono necessariamente. Il lettore non è obbligato a conoscere la biografia dell’autore e l’opera, per così dire, parla da sola. Non ho nulla contro Il Signore degli Anelli – al contrario – : ma sfido chiunque non abbia letto una biografia di Tolkien a trovarvi tracce esplicite della devozione cristiana dell’autore. Semmai, il mondo di Tolkien è un tipico mondo alternativo, che assomiglia ben poco al mondo cristiano redento dalla venuta del Figlio di

7 Cfr. JURI MEDA, “Vietato ai minori. Censura e fumetto nel secondo dopoguerra fra il 1949 e il 1953”, Schizzo Idee 10 [Schizzo 72], giugno 2002, pp. 73-88.
8 Cfr. U. ECO, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano 1990.

Dio sulla Terra: del che i suoi cristianissimi amici non fecero mai una colpa a Tolkien, perché uno dei compiti di quel tipo di letteratura è appunto la creazione di mondi alternativi.

Ma - incalza il talebano di casa nostra - Harry Potter fa della magia. Il problema del talebano italiano è che si è appena convertito al fondamentalismo, e non se la sente (ancora) di andare fino in fondo. Dunque, critiche serrate ad Harry Potter: ma non sentiamo nulla contro Biancaneve (e la strega?), Cenerentola (e la fata?), la Bella Addormentata nel Bosco (e le tre fatine?). Ma, obietta timidamente il neo-talebano, Biancaneve e Cenerentola (e perfino Tolkien) si situano in un mondo fantastico, mentre Harry Potter confonde i bambini perché si muove nell’Inghilterra dei nostri giorni Vero: ma allora perché non prendersela con Peter Pan (che inizia il suo viaggio dall’Inghilterra dei tempi del suo autore), il Mago di Oz o Mary Poppins? (e al talebano non fate sapere che l’autrice di quest’ultima, Pamela Travers [1899-1996], era una fedele discepola dell’esoterista George Ivanovitch Gurdjieff [1866?-1949]) 9. In verità non c’è scelta: o si riconosce che il linguaggio della magia è stato usato per raccontare storie ai più giovani a partire dalle favole, e in gran parte della letteratura per bambini di tutti i tempi, e che i bambini normali lo hanno riconosciuto intuitivamente come linguaggio e non come fotografia della realtà, o si bruciano sul rogo con Harry Potter anche Peter Pan e Biancaneve, e si manda Cenerentola al ballo solo se indossa rigorosamente la burkha.

Il problema però - tenta di rispondere il talebano - è che il bambino che oggi legge Harry Potter domani aderirà a qualche movimento magico o occulto. Davvero? Ma certo, risponde il talebano: non è forse a tutti noto che i movimenti magici e gli ordini esoterici sono in crescita? La risposta è no. Non è noto agli specialisti, quelli che non si limitano a collezionare ritagli di giornali oppure osservazioni aneddotiche (più o meno "partecipanti") ma seguono l’evoluzione dei movimenti magici, degli ordini esoterici, delle società occulte: i loro aderenti in Italia (e in molti altri paesi) rimangono sotto lo 0,1% della popolazione 10,e la maggior parte di queste organizzazioni (comprese quelle un tempo più grandi) sono semmai in declino. Certo, fanno notizia e audience in televisione (i sociologi Rodney Stark e Laurence Iannaccone scrivevano qualche tempo fa che i media si interessano di più a tredici adepte della neo-stregoneria che ballano intorno a un calderone che non, per esempio, a tredici milioni di Testimoni di Geova) 11: ma le notizie non fanno statistica. E in questi dati c’è la prova empirica che il nostro talebano ha torto: dopo un decennio televisivo, cinematografico e di letteratura popolare in gran parte all’insegna del magico e del paranormale (da X-Files a Streghe, e da Ghost a Buffy) ci si dovrebbe aspettare che i giovani si affollino alle porte dei movimenti magici: succede invece esattamente il contrario. Qualora poi si sostenesse (più seriamente) che non le appartenenze ma le credenze magiche sono in aumento, si potrebbe rispondere che sono assai presenti nella società e tra i giovani, ma – a credere alle indagini sociologiche – sono costanti da diversi lustri (forse anche da prima, ma mancano i dati): dunque, all’aumento della fiction magica non è neppure provato che corrisponda un aumento delle credenze nella magia. Aumentano solo i ritagli di giornali, e la fiction magica si auto-riproduce, nel senso che ai prodotti di qualità si affiancano tentativi d’imitazione più o meno rozzi: ma questo, esattamente, che cosa prova?

9 Cfr. i miei "Il maestro e Mary Poppins", Letture, anno 50, quaderno 521, novembre 1995, pp. 24-29; e "Mary Poppins goes to Hell: Pamela Travers, Gurdjieff and the Rhetorics of Fundamentalism", in SEYMOUR B. GINSBURG - H. J. SHARP - NICOLAS TERESHCHENKO (a cura di), The International Humanities Conference: All and Everything 96, The Conveners of the International Humanities Conference: All and Everything 96, Littlehampton (West Sussex), pp. 153-167.

10 Cfr. i dati riportati in M. INTROVIGNE - PIERLUIGI ZOCCATELLI - NELLY IPPOLITO MACRINA - VERÓNICA ROLDÁN, Enciclopedia delle religioni in Italia, ElleDiCi, Leumann (Torino) 2001.
11 RODNEY STARK - LAURENCE R. IANNACCONE, «Why the Jehovah’s Witnesses Grow so Rapidly: A Theoretical Application», Journal of Contemporary Religion, vol. 12, n. 2 (maggio 1997), pp. 133-157 (p. 155).

E le ragazzine sataniste (o sedicenti tali) di Chiavenna che ammazzano le suore? - domanda a questo punto, facendosi persino minaccioso, il nostro talebano. Chi ha qualche familiarità con l’inchiesta sa che le ragazze di Chiavenna non passavano il tempo a leggere Harry Potter, e neanche Tolkien, e neppure a vedere sceneggiati televisivi di supernatural fiction. Si interessavano alla morte, al sesso, alla droga e alla disperazione, e continuavano a girare intorno a questi temi con interminabili corrispondenze e diari. Harry Potter, nel loro caso, avrebbe fatto bene? Manca certo la controprova, ma mi permetto di pensare di sì. Il linguaggio della magia - che è il linguaggio principale della cultura popolare prodotta per i più giovani, non da anni ma da secoli - non è certo un salvacondotto che debba consentire ai prodotti di tale cultura di sottrarsi a un giudizio critico. L’unico esame che possiamo fare alla fiction è di natura morale; l’esame di religione vale solo per i prodotti esplicitamente religiosi (se la televisione mette in scena Padre Pio, lo vogliamo ragionevolmente fedele all’originale). E l’esame di morale Harry Potter lo passa a pieni voti. Contro la confusione postmoderna, c’è una chiara distinzione fra il bene e il male. Ma questa distinzione non è dipinta (come capita nelle produzioni dozzinali, e - ahimè - nei tentativi dei fondamentalisti di produrre cultura popolare) usando solo il bianco e il nero. Si utilizzano tutti i colori della tavolozza, e Harry Potter è in grado di far prevalere il bene solo perché conosce un male che scopre misteriosamente dentro di sé e che deve sconfiggere giorno per giorno.

Il pericolo, semmai, è che la vera magia di Harry Potter - avviare bambini di sette o otto anni alla gioiosa lettura di migliaia di pagine - sia messa in pericolo dalla scorciatoia cinematografica. Contro questo pericolo, suggerendo discretamente un ritorno al testo scritto, i genitori che hanno sperimentato i benefici effetti di Harry Potter dovranno in effetti vigilare. Ma, di fronte all’avvento minaccioso del talebano italiano – che, dopo Harry Potter, si aggirà già alla ricerca di altri obiettivi – si tratta, tutto sommato, di un problema minore. Il talebano va fermato prima che sia troppo tardi, o al prossimo ballo Cenerentola non riuscirà a entrare senza burkha 







CENTRO STUDI ORIENTE OCCIDENTE

Convegno: 
TROVARE DIO IN IL SIGNORE DEGLI ANELLI E IN HARRY POTTER 
Ancona, 30-31 maggio 2002

J.R.R. TOLKIEN, OVVERO IL DIO NASCOSTO
ANDREA MONDA
docente di Religioni e critico letterario

SULLE TRACCE DI DIO

Trovare Dio ne Il signore degli anelli.
Questo l’arduo e ambizioso compito che mi è stato assegnato. Non è questa una captatio benevolentiae nei confronti del pubblico che pazientemente mi ascolterà, ma una riflessione che parte da una semplice constatazione: Dio, nel SdA, non c’è... apparentemente.
Se mi fosse stato chiesto di trovare Dio ne
Il Silmarillion sarebbe stato più semplice: è la seconda parola del libro! Basta infatti aprire la prima pagina e trovarvi scritto:
Esisteva Eru, l’Uno, che in Arda è chiamato Ilùvatar; ed egli creò...
Nel SdA niente di tutto questo, niente miti cosmogonici, niente creatori, niente angeli, niente demiurghi, niente demoni... tutto è così laico, mondano, direi intra-mondano.
Ma, sottolineo,
apparentemente. Apparentemente nel senso che di fronte a quest’opera monumentale, più di 1200 pagine affascinanti e abbacinanti, il lettore rischia di rimanere disorientato, come ipnotizzato dalla bellezza della storia e del panorama delle immagini e di perdere quindi di vista la dimensione della profondità, dello spessore della storia, del senso trascendente che invece anima molte, molte pagine del romanzo
Dio è quindi nascosto tra le mille pagine, come un animale mimetico nella giungla, che si camuffa occultandosi nella rigogliosa vegetazione della scrittura tolkieniana.
Questa idea di un
occultamento di Dio nel SdA non è una mia fantasia, ma nasce da un’ammissione dello stesso Tolkien che, in una lettera del dicembre del 1953 scrive a Padre Robert Murray, nipote di Sir James Murray (il fondatore dell’Oxford English Dictionary) e amico intimo della famiglia Tolkien, che aveva letto parte del Signore degli Anelli sulle bozze e sul dattiloscritto, e aveva, su richiesta di Tolkien, mandato critiche e commenti. P.Murray aveva in particolare scritto che il libro gli aveva lasciato una forte sensazione di “una positiva compatibilità con la dottrina della Grazia”, e paragonava la figura di Galadriel a quella della Vergine Maria. Dubitava che i critici sarebbero stati in grado di comprendere il libro: “non troveranno una nicchia opportunamente etichettata”.
Il 2 dicembre 1953 Tolkien risponde così:
“Mio caro Rob, è stato splendido ricevere la tua lunga lettera questa mattina. [...]mi ha specialmente rallegrato quello che tu hai detto, stavolta e prima, perché tu sei più perspicace, specialmente sotto certi aspetti, di qualsiasi altro, e hai rivelato persino a me stesso alcune cose del mio lavoro. Penso di sapere esattamente che cosa intendi con dottrina della Grazia; e naturalmente con il tuo riferimento a Nostra Signora, su cui si basa tutta la mia piccola percezione di bellezza sia come maestà sia come semplicità. Il Signore degli Anelli è fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica; all’inizio non ne ero consapevole, lo sono diventato durante la correzione. Questo spiega perché non ho inserito, anzi ho tagliato, praticamente qualsiasi allusione a cose tipo la «religione», oppure culti o pratiche, nel mio mondo immaginario. Perché l’elemento religioso è radicato nella storia e nel simbolismo. Tuttavia detto così suona molto grossolano e più presuntuoso di quanto non sia in realtà. Perché a dir la verità, io consciamente ho programmato molto poco; e dovrei essere sommamente grato per essere stato allevato (da quando avevo 8 anni) in una fede che mi ha nutrito e mi ha insegnato tutto quel poco che so; e questo lo debbo a mia madre, che ha tenuto duro dopo essersi convertita ed è morta giovane, a causa delle ristrettezze e della povertà che dalla conversione erano derivate.”1
Una lettera molto intima, secondo me, ma che possiede una forza universale, cioè getta una luce sul senso profondo del capolavoro tolkieniano, questo libro così strano (non etichettabile) che è stato letto da milioni di persone sparse nel mondo e nel tempo.
Quale luce, quale chiave di lettura ci offre la corrispondenza privata tra Tolkien e Murray?
Innanzitutto ci dice qualcosa di interessante su come Tolkien ha scritto il suo libro.
Sembra che Tolkien non sapesse bene cosa aveva in mente quando si è messo a scrivere il
SdA: questo è un punto significativo e anche sorprendente. Chi ha in mente Tolkien, così preciso che, meticolosamente e con la “mentalità dello storico” si mette a pianificare la storia della Terra di Mezzo, quasi “giocando a fare Dio”, un Dio onnisciente, preveggente e onnipotente... ecco che qui scopre che questo Dio è disarmato, che non sa quasi nulla di quello che accade, un Dio al quale, come a molti uomini, gli tocca scoprire solo dopo, ex post, il significato degli eventi. Noi sappiamo che è così, in realtà: come nacque il SdA? Come seguito de Lo Hobbit; e come è nato questo romanzo? E’ ormai universalmente noto: “In una buca sotto il terreno viveva un Hobbit...” scrisse Tolkien sul risvolto di un compito di un suo studente, una giornata di estate, e aggiunse: quel nome così interessante mi provocava, dovevo saperne di più. Non era stato lui ad escogitare, inventare, trovare gli Hobbit, ma gli Hobbit a trovare lui. Qui invenzione si deve usare nel senso latino, giuridico, del termine: Tolkien si è imbattuto negli Hobbit e nella Terra di Mezzo. Visto che si parla di buche, è stato come una buca, che, finché non ci cadi dentro, non la noti: Tolkien ci è caduto dentro, altrimenti non l’avrebbe nemmeno notata. Capita.

Quindi Tolkien, come sospinto da eventi che non riesce a controllare (un po’ come il suo protagonista Frodo?), scrive e scrive, tesse la rete delle sue storie infinite, che sembrano non avere inizio né fine. Quando arriva ad un punto che potrebbe essere la fine, mi riferisco all’ultimo capitolo “I rifugi oscuri” (che strana fine: che termina con una partenza!) ecco che si rimette a leggere quello che ha scritto, quasi a ritroso e scopre mille cose che forse non s’era accorto di aver messo.

E questa scoperta non finisce lì: quando un lettore acuto come Murray gli mostra alcune trame che la sua rete ha intessuto, ecco che questo assume il volto di una rivelazione per gli occhi dello stesso autore. E sono convinto che anche noi, lettori forse meno acuti di Murray, potremmo mostrare all’autore sentieri di bellezza a lui stesso sconosciuti.

E’ il mistero dell’arte che è sempre e comunque un dono, una rivelazione continua, per cui non c’è forse un vero “autore” dell’opera d’arte.
Vengono in mente le parole di Flannery O’Connor, scrittrice cattolica anch’essa, che nel suo splendido saggio “
Nel territorio del diavolo” osserva: “... Lo scrittore di narrativa spiega il meno possibile. Il lettore giunge a collegare le due cose grazie a quanto gli viene rivelato. Forse non si rende nemmeno conto di fare un collegamento, che però c’è, e sortisce comunque il suo effetto... Il racconto può cosi espandersi in ogni direzione, e sfuggire in tal modo al suo destino di brevità. Potrei ora dire qualcosa su come ciò avvenga. Non crediate che per scrivere quel racconto io mi sia seduta a tavolino dicendo: «Adesso scriverò un racconto su una dottoressa con una gamba di legno usando quest’ultima come simbolo di un altro genere di tormento». Dubito siano poi tanti gli scrittori che quando si mettono all’opera sappiano già quel che vogliono. Nel cominciare il racconto, non sapevo nemmeno che ci avrei messo dentro una dottoressa con una gamba di legno. Semplicemente, una mattina mi sono trovata a descrivere due donne di cui sapevo un paio di cose, e, prima che me ne rendessi conto, una delle due era già stata dotata di figlia con gamba di legno. Man mano che il racconto procedeva, ho introdotto anche il venditore di Bibbie, pur non avendo ancora idea di cosa ne avrei fatto. Fino a dieci o dodici righe prima non sapevo nemmeno che avrebbe rubato la gamba, ma quando ho scoperto quanto stava per accadere, ho capito che era inevitabile. E una storia che sciocca il lettore, e una delle ragioni è che ha scioccato per primo il narratore. Nonostante sia nato cosi, in questo modo apparentemente involontario, il racconto non ha quasi subito revisioni. Sono riuscita a controllarlo durante l’intera stesura, e vien da chiedersi come abbia fatto, non essendone completamente cosciente. Credo che la risposta stia in quel che Maritain definisce «l’habitus dell’arte» Che lo scrivere narrativa sia un qualcosa dove in- terviene l’intera personalità - il lato conscio come quello inconscio della mente - è un dato di fatto. L’arte è l’habitus dell’artista; e come tutte le abitudini deve mettere radici profonde in tutta la personalità, e va coltivata nel tempo, mediante l’esperienza. Insegnare a scrivere, in generale, consiste soprattutto nell’aiutare lo studente a sviluppare quest’habitus. Pur trattandosi di una disciplina, non credo si riduca solo a questo; credo sia un modo di guardare al creato e di usare i sensi per cogliere nelle cose quanto più significato possibile. ....Credo che l’unico modo per imparare a scrivere racconti sia scriverne, e poi, in un secondo tempo, cercare di capire quel che si è fatto. Soltanto col racconto già sotto gli occhi, si può riflettere sulla tecnica. Quel che l’insegnante può fare per lo studente e esaminare il suo lavoro aiutandolo a capire se abbia scritto una storia compiuta, una storia in cui l’azione illumini appieno il significato...”2

Ma cosa aveva scoperto Tolkien ritornando sulle sue tracce? Cosa aveva incontrato rileggendo il suo capolavoro? Aveva scoperto che “Il Signore degli Anelli è fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica; all’inizio non ne ero consapevole, lo sono diventato durante la correzione”.
Non solo religiosa, badate bene, ma addirittura cattolica. Penso che questa frase abbia dato molto fastidio a molta parte della critica, non a caso non viene quasi mai citata. Il fatto che il SdA sia un’opera religiosa forse non dà poi molto fastidio: quale opera d’arte può dirsi non religiosa? Ma che sia anche “cattolica” appare un po’ troppo. E’ vero, si potrebbe dire, Tolkien era cattolico, profondamente cattolico, d’accordo ma questo è un fatto privato, che riguarda l’uomo-Tolkien, cosa c’entra con il Tolkien-artista? Questa visione, personalmente, mi appare alquanto miope e piccina. Luca Doninelli, nell’introduzione al bellissimo volume antologico “Letteratura moderna e cattolicesimo” di Charles Moeller ha osservato che “...arte e vita sono, infatti, due aspetti di un’unica realtà, ma sono anche due aspetti profondamente diversi...”. Diversità nell’unità. Non bisogna né confondere né contrapporre vita e arte o trascurare uno dei due elementi.

Ma il grande equivoco sulla cattolicità del SdA è nato e si è alimentato dal fatto espresso dalla frase successiva di Tolkien, quando dice che: “Questo spiega perché non ho inserito, anzi ho tagliato, praticamente qualsiasi allusione a cose tipo la «religione», oppure culti o pratiche, nel mio mondo immaginario. Perché l’elemento religioso è radicato nella storia e nel simbolismo.

E’ vero: non troveremo allusioni a cose tipo la religione nel SdA: c’erano ma l’autore le ha tagliate tutte. Che cattiveria! E che rischio che ha corso! Il rischio si è concretizzato in quello strano fenomeno che abbiamo sotto gli occhi da circa 50 anni: il SdA è stato etichettato in mille modi ma si è spesso voluto dimenticare che la vera radice, la matrice culturale dell’opera è il cattolicesimo.

Perché Tolkien lo ha fatto? Lui dice “Perché l’elemento religioso è radicato nella storia e nel simbolismo" (e poi cercheremo di ritrovarlo, questo elemento) ma, ripeto, perché lo ha fatto?

TOLKIEN E LEWIS

A questo punto bisogna aprire una piccola parentesi sull’amico più celebre di Tolkien, il filologo di nascita irlandese C.S.Lewis. Come è noto Lewis da ateo passò al cristianesimo anche grazie ai buoni uffici di Tolkien. Come è inoltre noto anche Lewis scrisse una trilogia fantastica come Tolkien, solo che lui ambientò nello spazio, mentre Tolkien collocò la sua storia nella Terra di Mezzo che è il nostro pianeta ma in un’altra era. Se si legge la trilogia fantascientifica di Lewis (così come le altre opere di narrativa) si rimane colpiti da quanto trasudino religione, cristianesimo. Non c’è alcuna mediazione artistica: si tratta di opere teologiche prima ancora che narrative. Il fatto è che per il convertito, il neofita, Lewis il cristianesimo è la «buona battaglia da combattere», è una bandiera, un vessillo.

Di conseguenza tutte le sue opere saranno apertamente e dichiaratamente opere «cristiane», tese anche, magari, a trasformare il lettore. Lewis ha sempre presente di fronte a sé, la Bibbia, il libro che più di ogni altro interroga, trasforma chi gli si avvicina. In un saggio sulla critica letteraria Lewis afferma: «Leggendo le grandi opere della letteratura divento migliaia di uomini e allo stesso tempo rimango me stesso. Come il cielo notturno della poesia greca vedo con una miriade di occhi ma sono sempre io a vedere, qui come nella religione, nell’amore, nell’azione morale e nella conoscenza, supero me stesso; eppure, quando lo faccio, sono più me stesso che mai».3

Per Tolkien le cose sono un po’ diverse. Anche lui tiene ben presente, di fronte a sé, la Bibbia come principale modello letterario. E’ il “Grande Codice” di cui parla il critico Northrop Frye, è un testo, quello biblico, che Tolkien conosce anche meglio di Lewis, visto che, tra l’altro, ha contribuito, anche se in piccolissima parte, alla realizzazione della Bibbia d i Gerusalemme. Lo ha così ben presente che se sovrapponiamo i contenuti della Bibbia e quelli del Silmarillion e del Signore degli anelli, e li guardiamo in controluce, troveremo una sostanziale e sorprendente affinità. Una somiglianza appunto di contenuti, perché le forme sono diverse, e quanto diverse! Tanto diverse che questa lettura «biblica» dell’opera di Tolkien, non è accettata da alcuni critici né avvertita da molti lettori. Tolkien invece, nelle due opere principali che ha scritto, «Il Silmarillion» e «Il signore degli anelli», ripercorre, precisamente, il cammino delle Sacre Scritture: Antico e Nuovo Testamento. La grande storia del Silmarillion che inizia con la cosmogonia, prelude e ricomprende la piccola ma decisiva storia di pochi anni della vita del piccolo Hobbit Frodo, proprio come i tre anni di vita pubblica del figlio del carpentiere di Nazareth portano a compimento le grandi storie e le profezie racchiuse nella tragica epopea del popolo d’Israele.

Tutto questo, Tolkien, lo ha fatto volutamente? No: come sopra detto, Tolkien ha ben poco programmato di quanto ha scritto. Lo ha fatto coscientemente? Ha consapevolmente riprodotto, con una nuova veste ed un nuovo linguaggio (che poi è quello antico dell’epica) i contenuti e le suggestioni delle Sacre Scritture? Qui forse il critico si deve arrestare. Deve avere la forza di non invadere il campo più privato ed interiore dell’artista. Qui forse i sentieri di arte e vita si biforcano e si diramano e il critico deve avere la forza e la discrezione di fermarsi sulla soglia del mistero che circonda la vita di ogni uomo-artista. E’ questo l’auspicio che lo stesso Tolkien si fa in più occasioni nel suo vasto epistolario che, per fortuna, è stato conservato dandoci la gioia di conoscere quale grande spirito si celasse dietro lo schivo e riservato autore di opere di così grande successo: «Una delle mie più radicate convinzioni» scrive in una delle ultime lettere, datata 1971, «è che investigare sulla biografia di un autore sia un modo inutile e sbagliato di accostarsi alle sue opere e specialmente ad un’opera di arte narrativa, di cui lo scopo, proclamato dall’autore, era quello di divertire...»4 e in un’altra del 1958 «...sono contrario alla tendenza attuale della critica, con il suo eccessivo interesse per i dettagli delle vite degli autori e degli artisti. Questi non fanno altro che distogliere l’attenzione dalle opere di un autore (se le opere sono degne di attenzione), e finiscono, come si può spesso constatare, per costituire il motivo principale di interesse. Ma solo l’angelo custode di ognuno di noi, oppure Dio stesso, è in grado di svelare la vera relazione che c’è tra i fatti personali e le opere di un autore.» 5

Le parole iper-cattoliche di Tolkien fanno venire in mente quelle dello scettico (ma sullo scetticismo di Borges io sarei molto scettico) che, peraltro, affermava: «Ogni poesia è misteriosa; nessuno sa interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere».
L’arte avviene secondo l’affermazione di Whistler. Dal punto di vista cristiano si potrebbe dire che l’arte è una grazia, un dono. Questo dono che l’artista riceve non è però considerato come un tesoro geloso ma viene comunicato, ulteriormente donato agli altri. Un artista scrive, dipinge, scolpisce, compone per comunicare, magari per comunicare solo la gioia del dono ricevuto. Gli altri, il pubblico (magari fatto da pochi amici o solo dalla persona amata...la quantità non conta) sono sempre fondamentali: l’artista non insegue il pubblico ma comunque gli parla, gli dice qualcosa.

Il punto, per quanto riguarda Tolkien, sta nel non rivelare la fonte, la sorgente di quel dono. Sembra che per Tolkien ci sia più efficacia nel non rivelare il nome di Dio che nell’evidenziarlo.

Si potrebbe dire così: Lewis è Achille, invincibile nella sua armatura cristiana, Tolkien è come Ulisse, costretto ad inventarsi il cavallo di legno per piegare la resistenza dei Troiani. Suona un po’ buffo questo parallelismo anche perché, a leggere le biografie dei due amici, si potrebbe benissimo rovesciare il paragone, essendo Tolkien quasi monolitico nella sua fede, vissuta intensamente, e invece rivelandosi Lewis un animo più tormentato, inquieto, direi dubbioso...

Vi parlerò un attimo di quello che mi è capitato leggendo il SdA.
L’ho letto a 12 anni. Si capiscono tante cose a quell’età (che magari oggi non capirei più) e tante altre invece non si comprendono (e che invece oggi magari colgo subito con la mia sensibilità di 36enne, padre di famiglia, professore di religione etc. etc.).
Non capii allora, per esempio, tutto il peso di quella matrice cattolica radicata nella storia e nel simbolismo. Mi piaceva la storia che vi era raccontata, mi trafiggeva il cuore fino alle lacrime e volevo subito ricominciare a leggerla, cosa che feci ovviamente e da allora continuamente rileggo questo romanzo scoprendovi sempre cose vecchie e cose nuove. Poi lessi il bellissimo invito alla lettura di Tolkien scritto da Emilia Lodigiani e fu una lettura illuminante a dir poco. E’ stata la Lodigiani a spiegarmi perché Tolkien mi piaceva tanto. E lo fece portando alla luce la ricchezza etica e spirituale del romanzo, che io avevo guardato ma non visto. Come quando si impressionano delle lastre fotografiche che però poi non vengono sviluppate, le lastre rimangono nere, anche se possiedono in sé la bellezza che hanno incontrato. Ci vuole un qualcosa che riesca a far uscire fuori quella bellezza potenziale, quel bozzolo, quelle lastre immagazzinate disordinatamente e sordamente. Ed ecco che la Lodigiani fece volare la farfalla, diede colore alle mie lastre nere. E dopo la Lodigiani si aggiunse anche il padre gesuita Guido Sommavilla, che nei suoi lunghi articoli ha raggiunto vette e acutezze formidabili nella comprensione dell’opera tolkienana.
Il più era fatto: anch’io mi buttai nella lettura di Tolkien alla luce dei miei studi teologici. Ho scritto anche qualche articolo giornalistico sui miei risultati e, da ultimo, un saggio insieme all’amico Saverio Simonelli. Ma mi sono dilungato anche troppo sul mio rapporto con Tolkien.
Torniamo a cercare questo Dio nascosto tra le righe del romanzo più letto del mondo, dopo la Bibbia. Mi ha sempre colpito questa statistica: la Bibbia e il
SdA. Visto che, secondo me, i due libri hanno molto in comune, il dato mi colpisce fortemente: è come se rivelasse la sete di infinito che è racchiusa dentro il cuore dell’uomo.

TOLKIEN, GENITORE E (SUB)CREATORE

Tolkien ha quindi nascosto Dio nelle pieghe della sua opera. Non troveremo una citazione esplicita della divinità, né altro richiamo anche indiretto. Come tutti i lettori accaniti di Tolkien ben sanno, l’unico lapsus che l’autore ha commesso nel suo lavoro di setaccio al fine di eliminare ogni segno di religiosità si trova nella famosa scena della preghiera silenziosa che Faramir e i suoi uomini dell’Ithilien compiono prima del pasto ad Henneth Annùn, la finestra che guarda ad occidente.

Abbiamo accennato al perché Tolkien agì così, camuffando, occultando. Fu anche una forma di pudore, e insieme un segno dell’autenticità della sua fede. Per Tolkien la fede cristiana non era un particolare, un accidente, ma la cosa più seria ed importante della sua vita, ciò che le donava senso e finalità. Leggendo le sue lettere ci rendiamo conto di come Tolkien vivesse la sua cattolicità, con quale gravità e intensità. Anche il suo romanzo, così ossessivamente amato, passava in secondo piano.

Mi ha sempre colpito quella lettera in cui Tolkien dice...

“... benché un critico abbia affermato che le invocazioni di Elbereth e la figura di Galadriel nelle descrizioni dirette (e attraverso le parole di Gimli e Sam) siano chiaramente collegate alla devozione cattolica a Maria. Un altro ha visto nel pane da viaggio (lembas) un viaticum e nel fatto che nutre la volontà e che è più efficace quando si è digiuni un riferimento all’Eucarestia. (Cioè: la mente indugia in cose molto elevate anche quando si occupa di cose meno elevate come una storia fantastica.)6

Questo era Tolkien, religiosamente votato al suo romanzo, alle sue storie, ma sempre pronto poi a distaccarsene... in un’altra lettera si dice non pienamente soddisfatto del suo capolavoro, e infine confessa: “Naturalmente “Il signore degli anelli” non mi appartiene. E’ stato portato a termine e ora deve andare per la sua strada, nel mondo, benché sia naturale che io provi molto interesse per le sue fortune, come un genitore si interessa ad un figlio. Mi conforta il sapere che ha dei buoni amici che lo difendono contro la cattiveria dei suoi nemici. (Ma gli sciocchi non sono tutti nel campo avverso)”7.

Il libro come un figlio. Anche Fellini parlava così dei suoi film, veri e propri figli che abbandonavano il padre nel momento dell’ultimo ciak per incominciare finalmente a vivere la propria vita attraverso le migliaia di proiezioni, visioni ed interpretazioni future. Per Tolkien, che di figli se ne intendeva, è senz’altro vera l’affermazione contenuta in “Ortodossia” capolavoro del suo “padre spirituale” Gilbert Keith Chesterton: "Non e' l'immaginazione che produce la pazzia; e' la ragione. I giocatori di scacchi diventano pazzi, non i poeti; i matematici, i cassieri possono diventare pazzi, non gli artisti che creano...la paternità artistica e' un fenomeno di sanità come la paternità fisica... i critici sono assai più pazzi dei poeti..."8

Bisognerebbe mettere più in luce la grandezza del Tolkien-genitore o pro-creatore che forse è di gran lunga superiore della grandezza del Tolkien-scrittore o sub-creatore. Un altro segnale di come Tolkien considerasse la sua appartenenza alla fede cristiana lo ricaviamo, indirettamente, dallo svolgimento del suo funerale. Ce lo racconta Humphrey Carpenter nell’ultima pagina della biografia: la messa fu celebrata dal figlio sacerdote, John, e oltre alle letture “canoniche”, non ci furono altre letture estratte dalle opere dello scrittore, né altre “innovazioni” sul rito e la liturgia funebre. Come a dire: non mischiamo in modo promiscuo e disordinato cose così umane con le cose divine, che sono le cose che restano, quelle serie, quelle vere.

Mi ha sempre colpito e commosso una riflessione di Tolkien sulla messa e sulla presenza di Dio in essa, è una riflessione che il vecchio papà Tolkien dona al figlio Michael in una delle sue ultime lettere, del primo novembre 1963 in cui scrive: “L’unico rimedio contro il vacillare e l’indebolirsi della fede è la Comunione. Benché sia sempre lo stesso, perfetto e completo e inviolato, il Santo Sacramento non agisce completamente e una volta per tutte in ognuno di noi. Come l’atto di Fede deve essere ripetuto e così accresce la sua efficacia. La frequenza garantisce il massimo effetto. Sette volte alla settimana è più efficace che sette volte dopo lunghi intervalli. Inoltre ti raccomando questo esercizio (ahimè! è fin troppo facile trovare il modo di praticarlo): fa’ la tua Comunione in un ambiente che urti i tuoi sentimenti. Scegli un sacerdote che borbotta e tira su col naso oppure un frate orgoglioso e volgare; e una chiesa piena della solita folla borghese, bambini maleducati — da quelli che gridano a quei prodotti delle scuole cattoliche che nel momento in cui il tabernacolo viene aperto si siedono e sbadigliano — giovani sporchi e con le camicie sbottonate, donne in pantaloni e spesso con i capelli arruffati e senza velo. Vai a fare la Comunione insieme a loro (e prega per loro). Sarà la stessa cosa (o anche meglio) che assistere ad una messa detta splendidamente da un sant’uomo e ascoltata da poca gente devota e decorosa. (Non sarà mai peggio della confusione di quando Gesù nutrì i cinquemila - dopo di che annunciò quello che sarebbe stata la Comunione.)”9

TOLKIEN E MANZONI

Per Tolkien Dio quindi non era un accidente. Era l’unica realtà, la più reale, la più vera di tutte. Egli era un credente nel senso di cui parla Faulhaber: “I miscredenti possono essere superficiali, i credenti no”; Dio è la cosa più seria del mondo: “A Dio puoi solo dire sì o no; non è permesso giocare con lui” afferma H.Urs Von Balthasar.

Se per Tolkien Dio è nella realtà, anzi è La Realtà, trovare Dio nelle sue opere non dovrebbe essere difficile. Dobbiamo solo tener presente quel fatto che Tolkien gioca a nascondere Dio, a tenerlo occultato, disperso come il sale negli interstizi più piccoli della realtà. Per lo scrittore inglese è vero quello che affermava un’antica tradizione spirituale orientale e cioè che “...il divino è celato solo nelle cose comuni... La santità è una cosa misteriosa: quanto più è grande, tanto meno la si nota”.

Si sente, molto forte, la lezione di Chesterton per cui “tutto passerà, resterà solo lo stupore e lo stupore per le cose quotidiane”. Chesterton che con il memorabile Innocenzo Smith, protagonista de “Le avventure di un uomo vivo”, come scrive Mircea Eliade, “ci fa vedere benissimo che abbiamo perduto il senso del meraviglioso proprio perché lo cerchiamo, invece di vedere che è in mezzo a noi. Cerchiamo il miracoloso ed il romantico, come cerchiamo la felicità, l’amore perfetto e la saggezza, senza accorgerci che sono intorno a noi, in attesa che li vediamo”.10

E così Tolkien inventa gli Hobbit: la gente meccanica e di piccolo affare, direbbe il Manzoni proprio per parlare della quotidianità e dello stupore che sono le condizioni per vedere Dio. E così Tolkien ci parla, proprio come Manzoni, di come la piccola storia di due Hobbit inquieti e sventurati (Bilbo e Frodo) si intreccia con la grande Storia della fine della Terza Era della Terra di Mezzo. E così Tolkien, proprio come Manzoni, ci parla di come protagoniste della storia, piccola e grande, siano in realtà la Grazia e la Provvidenza, ovvero sia, sotto falso nome, Dio stesso.

Grazia e Provvidenza si intrecciano di continuo nel romanzo dalla prima all’ultima pagina ma il loro apparire è discreto, non è mai sottolineato, è sempre silenzioso e quasi impercettibile.

Proviamo a tirar fuori qualche traccia di Dio dal romanzo, cercando di non guastare la bellezza limpida, compatta e coerente del capolavoro tolkieniano.

Perché è toccato a me? Come mai sono stato scelto io?” chiede Frodo all’inizio della storia. Queste sono domande senza risposta” risponde Gandalf, “Puoi credere che ciò non è dovuto ad alcun merito particolare o personale: non certo per via della forza o della sapienza, in ogni caso. Ma sei stato scelto tu, ed hai dunque il dovere di adoperare tutta la forza, l’intelligenza ed il coraggio di cui puoi disporre11.

Niente meriti: il merito, paradossalmente, è non averne. Che virtù ha Frodo? Apparentemente nessuna. La disponibilità, forse la pazienza; ma la pazienza, diceva Pascal, è la virtù più eroica perché non ha nulla di eroico. E a guardare Frodo, homo patiens, ci si rende conto di che nuovo modello di eroismo abbia in mente Tolkien.

Una cosa bella del personaggio di Frodo, è che lui, e ancora di più il suo amico fedele Sam, non capisce fino in fondo cosa sta accadendo. Non controlla mai la situazione. Quando decide di partire da Gran Burrone, quando offre la sua disponibilità dice: “Prenderò io l’Anello, ma non conosco la strada12. Per Frodo è vero quello che scriveva Martin Buber: “Ciò che Dio richiede da me in quest’ora lo apprendo quando mi accade, e non prima che mi accada.”

In altre parole la presenza della Grazia che dirige e richiama tutte le forze dell’uomo secondo il disegno della Provvidenza non schiaccia la libertà e la responsabilità dell’uomo.
“Avrei tanto desiderato che tutto ciò non fosse accaduto ai nostri giorni!” esclamò Frodo. “Anch’io” annuì Gandalf, “come d’altronde tutti coloro che vivono questi avvenimenti. Ma non tocca a noi scegliere. Tutto ciò che possiamo decidere è come disporre del tempo che ci è dato”.13

Ma sul tema della Provvidenza i due brani più espliciti del romanzo forse sono quello all’inizio della storia, a pagina 89 della Compagnia dell’Anello, quando il mago Gandalf afferma che: “Vi era un’altra forza in gioco, che il creatore dell’anello non avrebbe mai sospettato. E’ difficile da spiegarsi, e non saprei essere più chiaro ed esplicito. Bilbo era destinato a trovare l’anello”, e poi soprattutto l’affermazione a pag.307 quando, citando indirettamente un’idea di divinità o di Essere Superiore, il saggio Re Elrond così introduce il Consiglio da lui convocato: “Questo è il motivo per il quale siete stati tutti chiamati qui. Chiamati, dico, pur non avendovi io chiamati a me, stranieri di remoti paesi. Siete venuti e vi siete incontrati, in questo breve lasso di tempo, parrebbe quasi per caso. Eppur non è così. Sappiate che è stato ordinato che noi seduti in questo luogo, noi e non altri dobbiamo trovare una soluzione al pericolo che corre il mondo”.

La responsabilità dell’uomo quindi non è schiacciata ma messa nelle condizioni per essere esercitata. La Grazia viene in soccorso proprio per questo.
Come scrive Dietrich Bonhoeffer proprio in quegli anni tragici “
Sono fermamente convinto che Dio ci concederà in ogni situazione tanta forza quanta ne abbiamo bisogno. Ma non la dà in anticipo affinché non ci fidiamo di noi, ma di lui soltanto.”

Aragorn così si presenta agli Hobbit, sotto i logori e inquietanti panni di Grampasso: “Non vi chiedo più di quanto voi possiate offrire”.14

TOLKIEN, PAOLO, AGOSTINO E... GOLLUM

Sono, tutti questi, temi squisitamente paolini (e quindi agostiniani) con i quali Tolkien ha una tale confidenza che quasi inavvertitamente calano nel tessuto del romanzo. Pensiamo all’idea, tutta agostiniana, del Male come Non-Essere, come privazione dell’Essere. Sauron, il Signore malefico degli anelli, è un’ombra, distante ed impalpabile. Il suoi più fidati servitori sono gli Spettri dell’Anello e il suo Luogotenente è chiamato “La Bocca di Sauron” perché si è dimenticato il suo vero nome. Il suo esercito di orchi poi è il massimo dell’anonimato. Tranne pochissimi casi, nei dintorni delle due torri, Isengard e Cirith Ungol, noi non veniamo mai a conoscere i nomi di questi soldati, schiavi del terrore.

Gollum è un perfetto esempio di questo concetto. Il Male corrode e corrompe la persona al punto da spegnerla, da renderla sbiadita, spettrale. Smeagol dimentica il suo nome e diventa Gollum. L’Anello, talismano del Potere, in realtà è privo di poteri ma dona longevità e invisibilità: l’esistenza dei portatori degli anelli, se si lasciano corrompere dalla bramosia del possesso, diventa un’esistenza infernale, infinita e sempre uguale. L’umanità si assottiglia fino a scomparire se cade nelle grinfie della avidità e della gelosia. Là dove sarà il vostro tesoro sarà il vostro cuore. E Gollum è il personaggio più struggente e disperato del romanzo: un uomo che ha perso il cuore, l’anima e che non riesce a riscattare la propria esistenza dannata, perduta. C’è un momento, verso la fine della storia, in cui egli potrebbe riscattarsi e redimersi per sempre: accade lungo il cammino nelle terre di Mordor, attraverso le quali l’infido Gollum conduce le piccole “spie”, Frodo e Sam. I due hobbit della Contea si sono addormentati e Gollum si avvicina a Frodo. Il suo comportamento pietoso e generoso ha colpito e forse commosso l’indurito Smeagol che si sta arrovellando davanti ad una terribile alternativa: approfittare del sonno per rubare l’Anello o pentirsi e unirsi alla missione delle due spie? Purtroppo la sua “conversione” rimarrà potenziale, l’attimo fuggente sfuma subito anche perché non viene colto da un Frodo addormentato e tantomeno da quell’hobbit, ancora troppo “hobbit”, che è Sam (solo quando avrà sperimentato anche lui il peso dell’anello, egli diventerà un hobbit eccezionale). Il fedele, ma geloso Samwise, svegliatosi di soprassalto, senza nemmeno conoscerne le intenzioni, scaccerà brutalmente l’infelice Gollum lontano dal suo amato padrone e, soprattutto, lontano dalla possibile redenzione e rinascita di Smeagol. Mr.Hyde ha vinto: il vecchio e contorto hobbit non ha superato la prova e, ormai per sempre, rimarrà Gollum. Su questa possibilità di riscatto di Smeagol-Gollum la critica non si è quasi mai soffermata e invece si tratta, a detta di Tokien, del “momento più tragico della storia15. Per un attimo, infatti, un personaggio, che era diventato schiavo dell’Anello, intraprende un cammino di redenzione. Purtroppo la grettezza dei suoi compagni di viaggio (i buoni!) interrompe questo accenno di conversione. Gollum è perduto; ma la sua presenza permette, inconsapevolmente, oggettivamente, la realizzazione dei disegni della Provvidenza.

Questo tema è sin dall’inizio sottoposto all’attenzione del lettore: nel secondo capitolo del SdA, quando il mago Gandalf spiega a Frodo come l’Anello gli sia giunto passando per le mani dello zio Bilbo che a sua volta lo aveva sottratto a Gollum. Ad un certo punto Frodo esclama: “Che peccato che Bilbo non abbia trafitto con la sua spada quella vile e ignobile creatura quando ne ebbe l’occasione!” “ Peccato?” si chiede Gandalf. “Fu la Pietà a fermargli la mano. Pietà e Misericordia: egli non volle colpire senza necessità. E fu ben ricompensato di questo suo gesto, Frodo. Stai pur certo che se è stato grandemente risparmiato dal male, riuscendo infine a scappare ed a trarsi in salvo, è proprio perché all’inizio del suo possesso dell’Anello vi era stato un atto di Pietà”16. Quindi Bilbo si è salvato per il suo antico gesto di pietà. Tutto il contrario accade a Gollum perché all’inizio del suo possesso dell’Anello non vi è stata pietà ma violenza. La sua conversione quindi dura un attimo e subito si spegne. Ma una speranza continua ad esserci.

Continuando il racconto allo sbalordito Frodo, Gandalf afferma: “Ho poca speranza che Gollum riesca ad essere curato ed a guarire prima di morire. Ma c’è una possibilità. Egli è legato al destino dell’Anello. Il cuore mi dice che prima della fine di questa storia l’aspetta un’ultima parte da recitare, malvagia o benigna che sia; e quando l’ora giungerà, la pietà di Bilbo potrebbe cambiare il corso di molti destini, e soprattutto del tuo.” 17.

In altri termini: il bene compiuto produce altro bene che si espande e si estende, in modo misterioso, nello spazio e nel tempo. E’ un altro tema fondamentale, quello evidenziato da Merry quando parlava della pace assicurata, dagli altri popoli, alla Contea. “Il terreno nella Contea è profondo” dirà Merry, “Tuttavia ci sono cose ancora più profonde e più alte; e se non fosse per loro, un giardiniere non potrebbe curare il suo giardino in quella che lui chiama pace”18.

E’ il tema più “teologico”, legato alla dottrina del Corpo Mistico e della Comunione delle Cose Sante. Se non si considera la visione della Grazia e della Provvidenza propria del cattolico Tolkien, ben poco si capirebbe del senso della storia. Infatti, deve essere chiaro (e Tolkien lo sottolinea spesso nelle sue lettere) che Frodo, il protagonista del romanzo, è un eroe talmente “originale” da fallire nella sua missione19. Il fatto che Frodo fallisca è invece un altro particolare (come quello della origine hobbit di Gollum) che spesso viene rimosso. Si tratta, al contrario, come è ovvio, di un dettaglio fondamentale, alla cui luce si capisce che la questione ottimismo/pessimismo, per Tolkien, è mal posta.

Qui abbiamo un personaggio, Frodo, che è un anti-eroe, anzi, meglio, un anti-Faust: non vuole ottenere ma perdere, non possiede nessuna virtù “militare”, ma solo la virtù della pazienza, la “pazienza pascaliana”. Frodo, hobbit paziente, non deve conquistare ma rinunciare, rifiutare il potere, impresa per certi versi più difficile, eppure, imprevedibilmente, conduce la sua missione fino in fondo. Giunto al momento conclusivo, però, le sue forze cedono e vi è il crollo che sarebbe definitivo e distruttivo se non intervenisse un altro hobbit, molto meno paziente: Gollum. La sua avidità questa volta permette l’Eucatastrofe, il Lieto Fine, il capovolgimento improvviso e gioioso. L’esistenza di Gollum in quel momento è assicurata, causata dall’antico gesto di pietà di Bilbo nei confronti dello sventurato hobbit possessore dell’Anello (gesto perpetuato dal nipote Frodo e dal fido Sam lungo il viaggio verso Mordor). Solo a causa di quell’atto compiuto in precedenza e da altre persone, la missione di Frodo si compie. In questo spiazzante finale in cui un Altro (Dio, la Provvidenza, la Grazia?) emerge come unico e nascosto protagonista, ritroviamo tutta la formazione e la cultura cattolica del filologo inglese John Tolkien accanto al suo sano realismo.

Frodo e Sam riescono ad avere pietà e risparmiare Gollum solo perché, come lui, anch’essi sono portatori dell’Anello, ne conoscono quindi il pesante fardello, la terribile condizione di angoscia e solitudine. La pietà verso il peccatore nasce solo in chi ci si riconosce.
La consapevolezza del (proprio) peccato è il primo gradino per l’ascesi, la riconciliazione con se stessi e il mondo. La storia umana è piena di Male, ci dice Tolkien, e “
al potere del Male nel mondo le creature incarnate, per quanto buone, non possono resistere fino alla fine...” ma ci rassicura: “chi ha scritto la Storia non è uno di noi20.

Per Tolkien” osserva Oriana Palusci, “come per Borges e per la cultura medievale rivisitata da J.M. Lotman e da B.A. Uspenskij, il mondo è un testo, le cui pagine sono gli episodi di una cronaca che si sdipana fino al presente.” 21. Se il mondo è un testo, allora Dio è colui che ha scritto la Storia e gli uomini sono, volenti o no, tutti dei “filologi”.

Non si tratta allora di essere geniali creatori ma solo dei fedeli interpreti. In questo senso cadono come foglie le facili dicotomie pessimismo-ottimismo e progresso-conservazione: conservare che cosa? Nulla ci appartiene e non esistono “paradisi” in terra – nemmeno la Contea o Lothlorien - da difendere sempre e contro tutti. Il compito allora è quello di essere umili filologi di una storia che, per fortuna, non ci vede come autori, ma solo personaggi del nostro piccolo (ma indispensabile) ruolo perché “...non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo; il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo, al fine di lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare. Ma il tempo che avranno non dipenderà da noi22. Il tema della Provvidenza e di come essa interroghi e sproni la responsabilità dei singoli e delle comunità è riconfermato nella solenne affermazione di Gandalf posta quasi alla fine del romanzo.

Il SdA è un romanzo che ha riportato al centro della letteratura il genere epico. Di questo non saremmo mai troppo grati allo schivo professore di Oxford. Epico sì, ma mai solenne. La lingua usata da Tolkien è scarna, semplice, piana. Niente barocchismi, niente pomposità. Anche questo, secondo me, rispecchia la mentalità sopra accennata: il sacro, il divino, il santo, si cela nelle cose più um





CENTRO STUDI ORIENTE OCCIDENTE

Convegno: 
TROVARE DIO IN IL SIGNORE DEGLI ANELLI E IN HARRY POTTER 
Ancona, 30-31 maggio 2002

JOHN RONALD REUEL TOLKIEN: MITOLOGIA E TEOLOGIA DELLA STORIA
PAOLO GULISANO
saggista e scrittore 

John Ronald Reuel Tolkien: ovvero un caso letterario le cui dimensioni vanno oltre il valore dell'opera dello studioso inglese, e che testimoniano il suo significato di maestro, in una società che di buoni maestri ne ha un disperato bisogno. Sono passati ormai molti anni dalla pubblicazione del capolavoro di questo scrittore, Il Signore degli Anelli, (1954-55) ma l’interesse per questo autore resta ancora alto. Nel 1997 un referendum tenutosi tra tutti i lettori frequentatori delle librerie britanniche ha proclamato Il Signore degli Anelli libro del secolo; un responso che ha suscitato un certo disappunto tra la critica ufficiale, dal momento che Tolkien è ancora considerato dall’intellighentia-snob un autore per ragazzi. Ma a dispetto di tutte le accuse più o meno malevole e ingiustificate rivolte da anni a questo scrittore, Tolkien va ormai considerato non solo un autore di successo, ma anche come un autentico classico. Egli ha riproposto, in pieno ventesimo secolo, il genere letterario epico, ridando dignità letteraria all’antichissimo genere della narrativa dell’immaginario, nonostante il cinismo di una cultura dominante che, come Brecht insegnava, doveva fare a meno dei valori, in particolare dell'eroismo. Il professore di Oxford è divenuto così un maestro, un punto di riferimento esistenziale per generazioni di giovani lettori che si sono commosse ed esaltate alla lettura delle sue pagine epiche - così lontane dal realismo spesso squallido che ha imperato a lungo in letteratura- che narravano giustappunto di eroi, di regni perduti da restaurare,di signori del male contrapposti ad elfi, cavalieri e piccole gentili creature, pronte però ad ogni sacrificio per il trionfo del bene: gli Hobbit, personaggi peculiarmente ed assolutamente tolkieniani.

Nato in Sudafrica nel 1892 da genitori inglesi ivi trasferitisi per lavoro, ritornato in Inghilterra a quattro anni dopo la morte del padre, dopo la morte della madre avvenuta nel 1904 fu allevato dal proprio tutore, il sacerdote oratoriano padre Francis Morgan.Studiò ad Oxford dove ottenne il titolo di baccellierato e di Master of Arts. Nello stesso prestigioso ateneo fu docente per oltre vent’anni di Lingua e letteratura anglosassone, collaborando all’Oxford English Dictionary. La sua fama mondiale è tuttavia legata, come si è detto, alle opere di fantasia ( o per meglio dire di epica fantastica e mitologica) che ebbero enorme successo: Lo Hobbit (1937), Il Signore degli Anelli, Il Silmarillion uscito postumo nel 1977 a cura del figlio Christopher dopo la sua morte avvenuta nel 1973.

Ci si è interrogati a lungo se dietro questo grande interesse per Tolkien -che come abbiamo accennato non sembra esaurirsi- ci fosse una determinata ideologia. La risposta è sicuramente
negativa: risulta riduttiva qualsivoglia "etichettatura" del professore di Oxford, poiché ciò che ispirò e che diede significato alla sua vita e alla sua opera non è riconducibile ad una ideologia, ma ad una visione della vita, ad una concezione dell'essere, dell'uomo, della storia che è ben di più che una ideologia: è una filosofia. Tolkien possiede addirittura quella che potremmo definire una visione
teologica della storia, attraverso la quale giudica, con l'autorevolezza di un filosofo o di un profeta, le vicende umane e con esse le brutture e gli errori della modernità. Una lettura che non è ideologica ma, al contrario, realistica; non nasce, cioè, da un idea di mondo, o da un progetto più o meno utopico su di esso, ma dalla constatazione della natura e della condizione umana, segnata indelebilmente dalla Caduta (in termini cristiani dal Peccato Originale), talchè il Nemico da battere è sì l'avversario malvagio (come i personaggi del Signore degli Anelli Sauron o Saruman) ma è soprattutto il male che si annida infido in ciascuno di noi.

Il ritorno al Bello e al Vero auspicato dallo scrittore di Oxford venne realizzato da lui attraverso il ricorso e il ritorno al Mito, per ridare sanità e santità all’uomo moderno.“Il mito è qualcosa di vivo nel suo insieme e in tutte le sue parti, e che muore prima di poter essere dissezionato”, disse Tolkien parlando ai suoi studenti di una delle sue opere preferite, il Beowulf.

Il mito è necessario perché la realtà è molto più grande della razionalità. Il mito è visione, è nostalgia per l’eternità, come dice Clyde Kilby, studioso dell’opera tolkieniana.
Il mito non è metafora o allegoria, ma simbolo, ossia segno che rimanda ad un significato ultimo che l’uomo deve riconoscere e interpretare. Il mito, nella storia dell’umanità, non è mai stato contrapposto, come avviene oggi, alla realtà; il mito è sempre stato per sua stessa natura vero, espressione della verità delle cose. Nel mito si veniva a contatto con qualcosa di vero che si era pienamente manifestato nella storia, e questa manifestazione poteva fondare sia una struttura del reale che un comportamento umano. Il mito è un mezzo per dare risposte a questioni fondamentali come l’origine dell’uomo, il bene, il male, l’amore, la morte e per dare spiegazioni ai fenomeni della natura. Se il mito è il nesso, il legame che l’uomo ha sempre cercato con il senso della vita, esso non può quindi che essere considerato un’espressione naturale ed antichissima del senso religioso che vive nel cuore dell’uomo.

L'elemento religioso è radicato nelle storie di Tolkien e nel loro simbolismo. La sua stessa passione per il narrare nasce dal desiderio di comunicare la Verità, attraverso simboli e visioni. "Il Vangelo - spiegava- è la più grande Fiaba, e produce quella sensazione fondamentale: la gioia cristiana che provoca le lacrime perchè qualitativamente è simile al dolore, perchè proviene da quei luoghi dove gioia e dolore sono una cosa sola, riuniti, così come egoismo e altruismo si perdono nell'Amore".

In questa intensità epica e spirituale dell’opera di Tolkien sta il segreto della straordinaria attualità di questo autore di narrativa fantastica che si fa veicolo di valori immutabili, profondamente connaturati col cuore dell'uomo, i suoi sogni, le sue speranze. Il suo capolavoro, Il Signore degli Anelli, è il racconto epico di un periodo di transizione, che rappresenta un autentico manuale di sopravvivenza tra gli errori e gli orrori della Modernità. "Come può l'uomo giudicare che cosa deve fare in tempi come questi ? - chiede un personaggio del capolavoro tolkieniano, e gli risponde Aragorn, l'uomo destinato ad essere Re giusto: "Come ha sempre giudicato: il bene e il male non sono cambiati nel giro di un anno e non sono una cosa presso gli elfi e i nani e un'altra tra gli uomini. Tocca ad ognuno di noi discernerli".

Il Signore degli Anelli di Tolkien, ben lungi dunque dall’essere un semplice racconto per ragazzi o una storia fantasy di evasione, è il racconto intenso e affascinante di questa lotta iniziata agli albori dei tempi, scritta da un uomo dalla biografia apparentemente semplice e tranquilla che fu invece uno dei più grandi scrittori del Novecento, e che ridando dignità all’arte umana della subcreazione ci ha insegnato a ricercare la Bellezza e la Verità.

Occorre, soprattutto in quest'ultimo campo - secondo Tolkien - ripartire dalla realtà, dal suo vero significato, e sottoporla ad un processo di "sub-creazione".Nel marzo del 1939 egli tenne una conferenza sul tema delle storie fantastiche a St. Andrews, in Scozia. Il testo di questa straordinaria conversazione divenne poi un saggio, On Fairy Stories ( tradotto in italiano col titolo Sulle fiabe,pubblicato nel volume Albero e foglia). In esso egli rivendica questo ruolo della fantasia sub-creatrice come diritto umano: creiamo alla nostra misura e in modo derivativo in quanto siamo stati a nostra volta creati, e per di più ad immagine e somiglianza del Creatore.La fantasia è un mezzo di recupero della freschezza della visione della realtà, come rimedio all'ovvietà con cui trattiamo il vivere quotidiano. La fantasia - e quindi il racconto fantastico - ha per Tolkien una triplice funzione: ristoro, evasione, consolazione.

Il ristoro, ovvero il ritorno e il rinnovamento della salute, consiste per il Professore di Oxford nel ritrovare una visione chiara della realtà, nel "vedere le cose come siamo destinati a vederle". Tolkien stesso dichiarava di non voler rubare il mestiere ai filosofi esponendo queste sue tesi, preferendo la via chestertoniana dell'immaginario, del paradosso, dell'immagine velata, allo scopo di liberarci dai vari orpelli che, nella vita ordinaria, mascherano il volto della verità.

Il paradosso (affidare un'immane impresa, quale nemmeno maghi e cavalieri sentono di assumersi, ai piccoli e fragili hobbit) e la follia (rifiutare le seduzioni del potere e del piacere per percorrere una via di sacrificio e rinuncia, contro ogni apparente logica razionale) sono le caratteristiche dunque della fantasia guaritrice, ristoratrice, che consente l'evasione dal carcere di un'esistenza condotta tra formalismi, convenzioni, condizionamenti e menzogne. Per quanto riguarda poi la terza finalità del racconto fantastico, anche qui Tolkien porta profondi cambiamenti in quella concezione permeante ormai da tempo la narrativa realistica così come il genere avventuroso, caratterizzata dalla mancanza di finalità, dalla casualità degli eventi e dall'assenza di un elemento di giustizia, quindi di moralità, nella storia. Diceva Chesterton a proposito della finalità dei racconti, e lo stesso Tolkien lo riprende nei suoi scritti, che i bambini sono innocenti e amano la giustizia, mentre la maggior parte di noi è malvagia e naturalmente preferisce il perdono. Per questo i primi - e con loro tutti coloro che hanno un cuore puro da bambino - amano che le storie si concludano con un "lieto fine". A tale proposito, Tolkien introduce il concetto di "eucatastrofe": il racconto eucatastrofico, contenente cioè un giudizio morale sugli avvenimenti e una conclusione appropriata, è la vera forma di fiaba e ne costituisce la suprema funzione. Quando in un racconto fantastico abbiamo a trovare un "capovolgimento", un'interruzione del corso negativo degli eventi, un ribaltamento dell'inesorabile, opprimente realtà, abbiamo anche una stupefacente visione della gioia, dell'aspirazione del cuore che per un istante travalica i limiti del racconto, lacera la ragnatela della vicenda, permette che un bagliore la trapassi. "Gioia acuta come un dolore" dice Tolkien, presente nonostante le sconfitte e i fallimenti, poichè smentisce l'universale sconfitta finale, a dispetto delle molte apparenze contrarie evidenti nel tempo presente.La gioia conserva una traccia di quella strana qualità mitica della fiaba di cui si è detto in precedenza.E' certamente questa triplice funzione della fiaba e del racconto fantastico, che sempre si ritrova pienamente rispettata in ogni opera tolkieniana - al punto da far indispettire qualche critico, che trova irritante questa ricomposizione dei vari pezzi del mosaico delle varie storie, riconducenti sempre ad un significato, ad un fine che non è sempre apparentemente lieto ma è comunque propedeutico per i singoli personaggi coinvolti o per l'esito della vicenda - a conferire a Tolkien una assoluta originalità sia rispetto all'atmosfera e alle trame delle saghe antiche, che pur tanto amava e tanto profondamente conosceva, ma anche rispetto agli altri autori di narrativa fantasy.

La gioia che Tolkien ha posto a segno del vero racconto fantastico merita una più attenta considerazione; l’”eucatastrofe”, che è ben più del cosiddetto “lieto fine” delle fiabe tradizionali, rappresenta un lontano barlume, un’eco dell’Evangelium nel mondo reale. Nel saggio sui racconti fantastici Tolkien scriveva: “ Mi azzarderei ad affermare che, accostandomi alla Vicenda Cristiana sotto questa angolazione, a lungo ho avuto la sensazione (una sensazione gioiosa) che Dio abbia redento le corrotte creature produttrici, gli uomini, in maniera adatta a questo come pure ad altri aspetti della loro singolare natura. I Vangeli contengono una favola o meglio una vicenda di un genere più ampio che include l’intera essenza delle fiabe. I Vangeli contengono molte meraviglie, di un’artisticità particolare, belle e commoventi, “mitiche” nel loro significato perfetto, in sé conchiuso: e tra le meraviglie c’è l’eucatastrofe massima e più completa che si possa concepire. Solo che questa vicenda ha penetrato di sé la Storia e il mondo primario; il desiderio e l’anelito alla subcreazione sono stati elevati al compimento della Creazione. La nascita del Cristo è l’eucatastrofe della storia dell’Uomo; la Resurrezione, l’eucatastrofe della storia dell’Incarnazione. Questa vicenda si inizia e si conclude in gioia, e mostra in maniera inequivocabile la “intima consistenza della realtà”. Non c’è racconto mai narrato che gli uomini possano trovare più vero di questo, e nessun racconto che tanti scettici abbiano accettato come vero per i suoi propri meriti. Perché l’Arte di esso ha il tono, supremamente convincente, dell’Arte Primaria, vale a dire della Creazione. E rifiutarla porta o alla tristezza o all’iracondia.” Tolkien ci introduce al significato della gioia cristiana, il cui nome è Gloria: “L’arte ha avuto la verifica. Dio è il Signore degli angeli, degli uomini – e degli elfi. Leggenda e Storia si sono incontrate e fuse”. Il Vangelo non ha abrogato le leggende, dice il professore di Oxford, ma le ha santificate. “Il cristiano deve ancora operare, con la mente come con il corpo, soffrire, sperare, morire; ma ora può rendersi conto che tutte le sue inclinazioni e facoltà hanno uno scopo, il quale può essere redento. Tanto grande è la liberalità onde è stato fatto oggetto, che ora può forse permettersi a ragion veduta di ritenere che con la Fantasia può assistere effettivamente al dispiegarsi e al molteplice arricchimento della creazione. Tutte le narrazioni si possono avverare; pure alla fine, redente, possono risultare non meno simili e insieme dissimili dalle forme da noi date loro, di quanto l’Uomo, finalmente redento, sarà simile e dissimile, insieme, all’uomo caduto a noi noto”.

Si deve parlare quindi di Tolkien come scrittore religioso, dunque, e più precisamente si può rintracciare la fonte della sua visione religiosa nella fede cattolica intensamente vissuta. Tolkien era stato ricevuto nella Chiesa di Roma a nove anni, dopo la conversione della madre. La Chiesa cattolica in Inghilterra all’inizio del ‘900 era una comunità povera, composta in gran parte di immigrati irlandesi, con alle spalle tre secoli di persecuzioni. La città di Birmingham, dove la famiglia Tolkien viveva, era stata tuttavia illuminata in quegli anni dalla presenza di quel grande genio cristiano che fu John Henry Newman. Il volto magro e solcato di rughe profonde in cui splendevano due occhi intrisi di ideale scrutarono per anni in quella difficile Inghilterra. Elevato alla porpora cardinalizia da Leone XIII alla soglia degli ottant’anni, nominato Fellow onorario del Trinity College di Oxford (era dai tempi della Riforma, tre secoli prima, che un tale riconoscimento del massimo istituto accademico inglese non veniva più dato ad un cattolico) si spense a Birmingham nel 1890, mentre i Tolkien si trasferivano in Sudafrica. Sicuramente Mabel ebbe a respirare quel clima spirituale che Newman aveva diffuso. Sulla sua tomba il grande convertito aveva voluto che fossero incise queste parole: Ex umbris et imaginibus ad veritatem. Andiamo verso la verità passando attraverso ombre e immagini. Per John Ronald Tolkien, che amò subito appassionatamente la fede cui sua madre lo aveva condotto, l’arte fu per tutta la vita questa ricerca della verità tra quelle ombre, quelle immagini che sono i miti, i simboli, le lingue arcaiche parlate dalle generazioni scomparse, le antiche storie di tempi trascorsi e lontani. Il bambino di otto anni trovò nella fede cattolica una nuova e fondamentale pietra miliare della sua vita: una fede che non era solo sostegno e conforto per il presente e speranza per il futuro, ma era anche il luogo dove poteva rintracciare- cosa per lui importantissima- un passato, un terreno da cui traeva nutrimento vitale l’albero della storia, della sua storia. Il bambino che non aveva più un padre e nemmeno dei parenti trovò accoglienza in una Chiesa che era la chiesa dei suoi padri, dei suoi antenati. Questa consapevolezza, questo amore per le proprie antiche radici religiose si manifestò in seguito nell’interesse e nell’amore per il Medioevo, quando l’Inghilterra era cattolica, quando l’intero continente europeo conosceva ancora una unità culturale e spirituale in seguito mai più sperimentata. Da ciò derivò anche quella disapprovazione per il cosiddetto “progresso”, nel nome del quale, dalla Riforma in poi, tanti mali erano venuti. Il prezzo della conversione era stato per i Tolkien la condizione di miseria che ne seguì, e chi ne fece le spese fu Mabel. Nel 1904 fu ricoverata in ospedale , dove le fu riscontrata una grave forma di diabete che nel breve tempo di pochi mesi le fu fatale. Le era impossibile pagarsi le costose cure, e nessuno dei parenti fu disposto ad aiutarla. Cercò di non fare mancare nulla ai propri figli in quel periodo, e fece in modo che non avessero ad accorgersi delle sue condizioni.Nel novembre 1904 Mabel peggiorò rapidamente, entrando in coma diabetico e morendo, il 14 novembre, dopo sei giorni di agonia. “Mia madre è stata veramente una martire,- scrisse Ronald nove anni dopo_ non a tutti Gesù concede di percorrere una strada così facile, per arrivare ai suoi grandi doni, come ha concesso a Hilary e a me, dandoci una madre che si uccise con la fatica e le preoccupazioni per assicurarsi che noi crescessimo nella fede”.

Attraverso ombre e immagini Tolkien indirizzò la sua vita e la sua opera verso la Verità.
Nel ventesimo secolo l'Altrove del mito letterario si è avventurato spesso e volentieri sul terreno dell'utopia, preferendo tuttavia viaggiare nello spazio e nel tempo, aprendo l'immaginazione su nuovi mondi e nuove frontiere, frequentemente prefigurando scenari decisamente inquietanti. John Ronald Tolkien rifiuta invece ogni idea di utopia; la sua, semmai, è una storia ucronica, situata cioè in un tempo non identificabile. Il luogo - lo si è detto - è invece questa terra, la sola che ci sia data, e che 
dobbiamo amare . La saggezza di Tolkien è affidata alle parole di Gandalf, nella conclusione del Signore degli Anelli, ove dice:" Altri mali potranno sopraggiungere, perchè Sauron stesso non è che un servo o un emissario. Ma non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo, il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo, al fine di lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare. Ma il tempo che avranno non dipende da noi". E' questo il manifesto dell'umano realismo, profondamente cristiano, opposto agli incubi di tutte le utopie, con le loro promesse ingannatrici e illusorie. Aveva ben ragione Tolkien di difendersi dalle accuse di "escapismo", cioè di disimpegno, rivolte – del tutto a torto- alla sua opera. Non è, il mondo descritto nella Terra di Mezzo, quello in cui fuggire disertando dai propri obblighi e dai propri impegni, ma è invece la propria patria autentica, la propria casa accogliente, attualmente soppiantata e soffocata dai pessimi risultati della modernità figlia delle utopie ideologiche. E' il mondo, come ebbe a dire lo stesso Tolkien, della coraggiosa evasione del prigioniero, non della fuga pavida del disertore. Si accede alla Terra di Mezzo, ci si inoltra in essa, per realizzare un cammino attraverso il quale si diviene autenticamente sé stessi, eliminando il superfluo e facendo emergere la nobilis forma, la forma nobile dell'uomo, liberata da ogni grossolanità e impurità, che può così rivelare la propria origine divina.

Tolkien rivela nitidamente una propria teologia della storia, che riprende la concezione agostiniana delle due città: la Città terrena, opera degli uomini in cui agisce il male, e la Città di Dio, meta verso la quale indirizzare attese, sforzi e speranze. E' da sottolineare che S.Agostino si trovò a vivere al confine tra il crepuscolo di un mondo antico un tempo grandioso e l'alba di una nuova era dai contorni ancora incerti, e insegnò che la storia è guidata dalla Provvidenza e che quindi ogni avvenimento - dalla piccola vicenda personale alle grandi svolte dell'umanità - possiede un significato che dissipa l'oscurità e sorregge le forze dell'uomo. Le rovine, i numerosi segni di civiltà cresciute, ascese a grandezza e poi irrimediabilmente finite e dimenticate costellano ovunque la Terra di Mezzo scenario delle vicende tolkieniane, ricordandoci la caducità della Città terrena.
Tolkien guardò sempre all'arte come ad una nobile forma di sub-creazione, una prerogativa elevata ed elevante, poichè si tratta di realizzare opere nell'immagine di Dio e della sua creazione. Gli elfi sembrano essere preposti a ricordare agli uomini la bellezza del creato, il dono incorrotto di Dio. Essi sono testimoni discreti dell'importanza dell'arte, della cultura, di una civiltà elevata e virtuosa rispetto alla barbarie selvatica, compresa quella paludata di ritrovati tecnologici. Gli elfi ricordano agli uomini quello che anch'essi potrebbero essere, se si liberassero dalle loro passioni più insane e rovinose: l'elfo è essenzialmente un contemplativo, diverso dall'uomo attivo e frenetico che cerca di manipolare la natura per servirsene.
La Grazia che traspare da tutta l’opera di Tolkien, che ci viene rivelata attraverso il linguaggio simbolico del Mito è dunque questo dono dello Spirito Santo che è necessario all’uomo per ottenere la salvezza; essa sana e perfeziona la natura umana ferita e limitata dal peccato. E’ la Grazia lo straordinario segreto degli eroi di Tolkien, così come, secondo Chesterton, la gioia è il gigantesco segreto del cristianesimo. La Grazia della fede cristiana che completa e dà speranza allo stoico eroismo pagano, di cui Tolkien aveva scritto nel suo commento al
Beowulf: “Stimiamo in ogni modo gli antichi eroi: uomini prigionieri delle catene di circostanze o della loro propria indole,lacerati dal conflitto di doveri egualmente sacri, che muoiono con le spalle al muro”.
La risposta, sembra insegnarci Tolkien, consiste nel ricordare, nel fare memoria, così come il cristiano ricorda e rivive ogni giorno nell'Eucaristia un avvenimento ben preciso: la morte e la Resurrezione di Cristo. Tolkien paventa, di fronte all'avanzata distruttrice della modernità tecnologica e irreligiosa, la scomparsa della memoria, della Tradizione, e l'avvento di tempi di aridità, di materialismo, di menzogna. Si potrebbe pensare che lo scrittore inglese esprimesse una concezione decisamente pessimistica, se non addirittura catastrofica, mentre in realtà, come abbiamo letto nelle parole che egli nella conclusione del Signore degli Anelli fa pronunciare a Gandalf, il suo è semplicemente realismo cristiano, consapevole delle prove che siamo chiamati a sostenere ma anche certo della vittoria finale che spetta a Dio. “ La tragedia della grande disfatta nel Tempo resta pungente per un po’, ma cessa di essere alla fin fine importante. Non è una disfatta, perché la fine del mondo è parte del disegno dl Creatore, l’Arbitro che sta al di sopra del mondo mortale. Dietro, appare la possibilità di una vittoria eterna (o di una eterna sconfitta), e la vera battaglia è fra l’anima e i suoi avversari. Così, i vecchi mostri divennero immagini dello spirito o degli spiriti del male, o piuttosto gli spiriti malvagi entrarono nei mostri e presero forma visibile nei corpi orrendi dell’immaginazione pagana”. Così, alla fine, questo è il destino dell’uomo viator, che in questo mondo è solo un pellegrino in cammino, uno straniero che ha la sua patria autentica altrove: “ L’uomo straniero in un mondo ostile, impegnato in una lotta che non può vincere sinchè il mondo durerà, viene assicurato che i suoi nemici sono anche i nemici del Signore, e che il suo coraggio, in se stesso nobile, è anche la più alta lealtà”.