Per lo studioso di scienze sociali, la vera notizia non è il successo di Harry Potter ma l’attacco contro Harry Potter, dove si incontrano due strange bedfellows, o strani compagni di viaggio: l’attacco, tipico di una certa sinistra elitaria e snobistica, alla cultura popolare; e la manifestazione aperta, per la prima volta in Italia, di idee fondamentaliste che filtrano in alcune frange cattoliche dal fondamentalismo protestante di lingua inglese e che fino a oggi non avevano avuto, nel mondo cattolico, grande successo. Esaminiamo separatamente i due attacchi.
HARRY VISTO DA SINISTRA: GLI EPIGONI DELLA SCUOLA DI FRANCOFORTE
Per una certa critica di sinistra, oggi vestita di panni no global, il fenomeno Harry Potter rappresenta l’ennesimo tentativo di manipolare le masse – e tanto più i bambini – offrendo loro prodotti anglo-americani che ultimamente educano a valori di tipo reazionario e capitalistico. La critica non è nuova, anzi è così vecchia che sembrava passata di moda.
Nella sua versione moderna, il dibattito sulla cultura popolare 1 nasce con una domanda piuttosto difficile cui gli studiosi di scienze sociali tedeschi degli anni 1930, nella grande maggioranza più o meno marxisti, non riuscivano a rispondere facilmente. Secondo la teoria marxista il nazismo avrebbe dovuto reclutare soprattutto borghesi, impegnati a difendere i loro interessi di classe. Invece, era sufficiente aprire le finestre per rendersi conto che molti degli attivisti nazisti che sfasciavano le finestre degli istituti dove lavoravano quegli studiosi venivano dal mondo operaio o in genere dai ceti più disagiati. Com’era possibile? Intorno al tentativo di rispondere a questo quesito nasce una collaborazione fra psicanalisti freudiani – in particolare Paul Federn (1871-1950) e i giovani Erich Fromm (1900-1980) e Wilhelm Reich (1897-1957) – e studiosi di teoria politica (tra cui Max Horkheimer, 1895-1973, e Theodor Wiesegrund Adorno, 1903-1969), che è alle origini dell’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte, cioè della Scuola di Francoforte. Questi studiosi elaborano un modello in tre parti che dovrebbe spiegare coma nasce la «personalità autoritaria». Alle origini c’è la repressione sessuale nell’infanzia, che fissa l’individuo nelle fasi orale e anale impedendo l’ordinato passaggio alla fase genitale. Tale repressione – che è precisamente più diffusa nei ceti disagiati – prepara al sadismo e al masochismo anche nelle loro versioni ideologico-politiche: masochismo come sottomissione al capo, sadismo come violenza verso gli oppositori. In secondo luogo, la personalità autoritaria – già preparata dalla repressione infantile – è coltivata da una manipolazione culturale operata da tre agenzie: la religione (nei cui confronti sono riprese le critiche freudiane, anche se più tardi Fromm distinguerà fra una variante autoritaria della religione e una «umanistica»), gli slogan patriottici che riducono la politica a uno schema rozzo di opposizione fra «noi» e «loro», e la cultura popolare (ben prima di Harry Potter, sono presi di mira soprattutto i romanzi western venduti a pochi marchi e diffusi fra gli operai in Germania). In terzo luogo – certo, senza una consapevolezza né uno studio scientifico – la propaganda autoritaria si inserisce su questa preparazione e manipola ulteriormente l’individuo reclutandolo come militante nazista.
Prima della Seconda guerra mondiale questi studiosi – tutti oppositori del regime, e quasi tutti ebrei – sono costretti a emigrare negli Stati Uniti, dove ricostruiscono l’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte alla Columbia University di New York. Qui le loro ricerche
1 Cfr. sul punto il mio Il lavaggio del cervello: realtà o mito?, Elledici, Leumann (Torino) 2002.
godono di finanziamenti e appoggi del governo americano, il quale però – a guerra finita – chiede loro di concentrarsi non tanto su come nasca la personalità autoritaria nazista (che ormai non sembra più un pericolo) quanto quella comunista. Alcuni studiosi – essi stessi comunisti – rifiutano. Altri collaborano con teorici del totalitarismo che erano anch’essi espatriati dall’Europa di lingua tedesca, come Hannah Arendt (1906-1975) e Carl Friedrich (1901-1984) in iniziative come il Progetto di Berkeley (1949-1950) e la Conferenza di Boston (1953), le quali producono una versione rivista del modello, legata in particolare al nome di un ulteriore espatriato, lo psicanalista austriaco Erik Homburger Erikson (1902-1994). Rimane fermo il primo stadio del modello (la repressione sessuale nell’infanzia), sia pure con qualche distinguo. Quanto al secondo stadio, certo tenendo conto anche di quanto l’opinione pubblica e l’ambiente culturale americano erano disposti ad accettare, si precisa che non tutta la religione prepara all’adesione al totalitarismo, ma solo quella definita come «fondamentalista» o «settaria»; non tutta la cultura popolare, ma solo quella rozza e di bassa lega (l’industria cinematografica, potentissima negli Stati Uniti, è ampiamente risparmiata e si attaccano piuttosto la letteratura per l’infanzia ad alte tirature e i fumetti, i comics); non tutte le forme di patriottismo e di nazionalismo, ma solo quelle spurie come il nazismo o il comunismo. I nemici diventano quelle che potremmo chiamare le tre C: i cults (la parola inglese equivalente funzionalmente a «setta»), i comics e i comunisti. Quanto – è il terzo stadio del modello – alla descrizione della manipolazione totalitaria, essa si concentra tramite gli studi, finanziati dal governo americano, di due allievi di Erikson peraltro di idee politiche piuttosto diverse tra loro, entrambi viventi, Robert Jay Lifton ed Edgar H. Schein, sulle attività del comunismo, e in particolare del maoismo cinese.
2 Per tutti i riferimenti, cfr. ibid., pp. 52-53. Nel testo si troverà una bibliografia essenziale di tutti gli autori citati nel
prosieguo.
3 Cit. in ALAN W. SCHEFLIN – EDWARD M. OPTON, JR., The Mind Manipulators. A Non-Fiction Account, Paddington,
New York-Londra 1978, p. 437.
Seduction of the Innocent 4, un volume di enorme successo in cui attacca la letteratura per l’infanzia e in particolare i fumetti, la cui influenza determinerà importanti sviluppi giuridici sia negli Stati Uniti, sia in Inghilterra5. Gli studi sulla cultura popolare nascono così, quando l’università comincia a interessarsene negli anni 1950, come studi contro la cultura popolare, a suo modo “oppio del popolo” e fomite di indottrinamento delle masse.
Nel 1964, Umberto Eco pubblica – dieci anni dopo l’opera di Wertham – uno studio destinato a rivoluzionare l’accostamento accademico alla cultura popolare, non solo in Italia: Apocalittici e integrati 6. Eco – chiudendo i suoi personali conti con la Scuola di Francoforte – denuncia l’accostamento prevalente nei confronti della cultura popolare come “apocalittico”, facendosi beffe di una vulgata secondo cui letteratura per l’infanzia, televisione e fumetti lavano il cervello alla classe operaia; nello stesso tempo prende le distanze anche dagli “integrati”, cioè da quegli studiosi soprattutto americani che – a mezza strada fra l’accademico e il fan – esprimono il loro affetto e la loro nostalgia per certi personaggi e certi prodotti cultural-popolari senza preoccuparsi di collocarli nel contesto sociale. Anche se i gusti personali di Eco influenzano l’ultima parte del saggio, Apocalittici e integrati apre un’epoca nuova per lo studio della cultura popolare – in particolare della letteratura per l’infanzia di largo consumo e dei fumetti – e favorisce la nascita in numerosi paesi europei di cattedre e istituti universitari dove ogni fenomeno o prodotto è studiato secondo le sue caratteristiche specifiche, senza pregiudizi “apocalittici”.
Oggi, in un’epoca di crisi della sinistra, si levano voci revisioniste rispetto a quello che nel 1964 era il revisionismo di Eco: le recensioni malevole contro Harry Potter sono tipiche di questo retrenchment di una sinistra in cerca di identità, che pensa di trovarla tornando all’antico, riproponendo il teorema di Francoforte nella sua versione più stereotipa, e denunciando l’“irrazionalismo” della cultura di massa secondo modelli che risalgono agli anni 1930.
HARRY VISTO DAI FONDAMENTALISTI: I TALEBANI ITALIANI
Già il dottor Fredric Wertham, personalmente libero pensatore e di sinistra, aveva dovuto allearsi nella sua battaglia per restaurare una qualche forma di censura sulla letteratura giovanile con la “Lega della Decenza” cattolica e consimili organizzazioni protestanti, verosimilmente assai poco consapevoli delle premesse culturali che ispiravano il discorso dello psichiatra di New York. In Italia un’eco delle polemiche americane si ritrova in proposte di legge che negli anni 1949-1953 (dopo – il tema è di sorprendente attualità – delitti atroci commessi da minorenni) un gruppo di deputati democristiani guidati da Oscar Luigi Scalfaro introduce reiteratamente in Parlamento per la censura sulla letteratura per l’infanzia e i fumetti, accusati di trasformare inconsapevolmente i ragazzini in criminali o in “comunisti”. Curiosamente, Scalfaro se la prende particolarmente con il genere western e con gli albi a fumetti de Il piccolo sceriffo, non si sa con quanta consapevolezza di riprendere a sua volta temi tipici della prima Scuola di Francoforte. La campagna di Scalfaro non porta ad alcun esito per la vigorosa opposizione non solo della grande stampa, ma di una parte dello stesso mondo cattolico, guidata dallo scrittore Giovanni Guareschi (1908-1968), certamente anticomunista ma, per disgrazia di Scalfaro, anche fan dei fumetti western e de Il piccolo sceriffo. Guareschi, come gli è consueto, si mette anche nei guai per una vignetta un po’ osée, dove due prostitute – rispettivamente
4 FREDRIC WERTHAM, Seduction of the Innocent, Rinehart & Co., New York – Toronto 1954.
5 Cfr. sul punto AMY KISTE NYBERG, Seal of Approval: The History of the Comics Code, University Press of
Mississippi, Jackson 1998.
6 UMBERTO ECO, Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Bompiani, Milano
1964.
madre e nonna di un ragazzino – si lamentano della maleducazione del piccolo mentre esercitano la loro professione sulla strada. Deve essere colpa dei fumetti western – concludono – augurandosi che il governo li vieti 7.
Oggi è questo movimento che – prendendo a prestito categorie sociologiche di solito applicate alla critica militante delle minoranze religiose (definite dagli oppositori “sette”) – potremmo chiamare “contro Harry Potter”, distinguendolo da quello “anti-Harry Potter” laico da cui pure attinge elementi e categorie, si manifesta soprattutto con vigore, e accusa Harry Potter di essere un cattivo maestro e di avviare i ragazzini alla magia e ai movimenti magici, che - si afferma - sarebbero in grande espansione. I suoi argomenti, che ricorrono spesso su una certa stampa cattolica, qualche volta sfiorano il ridicolo: mi si consentirà, quindi, una trattazione più “leggera” rispetto all’esame precedente delle teorie, almeno di diversa dignità culturale, che derivano dalla Scuola di Francoforte. Si tratta qui di una deriva non tanto “di destra” (senza volere entrare qui nel complesso dibattito sulla definizione di “destra”) quanto, piuttosto, fondamentalista.Tra le molte definizioni del fondamentalismo correnti nelle scienze sociali c’è quella - qui pertinente - secondo cui la sua caratteristica specifica è la negazione dell’autonomia delle realtà secolari, in particolare della cultura (e della politica), nel loro rapporto con la fede. Per il laicista, tra fede e cultura ci deve essere totale separazione: una sorta di muraglia cinese che nega al credente il diritto di far diventare la sua fede cultura e di giudicare la cultura alla luce della fede. Per l’uomo religioso non fondamentalista, tra fede e cultura non c’è separazione: vi è tuttavia distinzione, nel senso che la cultura, come tutte le realtà terrene e secolari, ha una sua sfera di autonomia, pur potendo e dovendo essere giudicata alla luce della fede e della morale. Per il fondamentalista, fede e cultura coincidono in una sorta di fusione - che chi fondamentalista non è valuterà facilmente come confusione -, per cui ogni modo di produzione della cultura che non parta esplicitamente dalla fede sarà considerato necessariamente sospetto, se non demoniaco.
Il problema - per rimanere alle sue dimensioni sociologiche - è che, almeno dal Settecento e certamente dalla Rivoluzione francese, la cultura popolare (per tacere di quella colta) è ampiamente prodotta a prescindere dalla Chiesa e dalla comunità cristiana, come cultura non anzitutto indirizzata alla missione e alla formazione ma al consumo. Rifiutare pregiudizialmente tutta la cultura popolare moderna e postmoderna in quanto i suoi modi di produzione non sono religiosi è una conclusione cui il fondamentalismo, concepito in modo rigoroso, non può sottrarsi: ma è anche una conclusione che chiude il credente fondamentalista in un ghetto e lo condanna ad alimentarsi di quel poco che è ancora prodotto dall’interno della sfera religiosa.
Alcuni neo-talebani impegnati nella campagna contro Harry Potter ci assicurano che la sua autrice non è credente, mentre - per esempio - John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973), il creatore de Il Signore degli Anelli, era invece un buon cattolico. So poco delle convinzioni religiose della signora Rowling; mi sembra però che ci sia qui una notevole confusione fra intenzione dell’autore e intenzione dell’opera, che pure sarebbe facile da chiarire senza neppure bisogno degli studi sull’interpretazione di Umberto Eco8, con il semplice ricorso alla filosofia classica e al buon senso. Intentio auctoris e intentio operis non coincidono necessariamente. Il lettore non è obbligato a conoscere la biografia dell’autore e l’opera, per così dire, parla da sola. Non ho nulla contro Il Signore degli Anelli – al contrario – : ma sfido chiunque non abbia letto una biografia di Tolkien a trovarvi tracce esplicite della devozione cristiana dell’autore. Semmai, il mondo di Tolkien è un tipico mondo alternativo, che assomiglia ben poco al mondo cristiano redento dalla venuta del Figlio di
7 Cfr. JURI MEDA, “Vietato ai minori. Censura e fumetto nel secondo dopoguerra fra il 1949 e il 1953”, Schizzo Idee 10
[Schizzo 72], giugno 2002, pp. 73-88.
8 Cfr. U. ECO, I limiti dell’interpretazione, Bompiani, Milano 1990.
Dio sulla Terra: del che i suoi cristianissimi amici non fecero mai una colpa a Tolkien, perché uno dei compiti di quel tipo di letteratura è appunto la creazione di mondi alternativi.
Ma - incalza il talebano di casa nostra - Harry Potter fa della magia. Il problema del talebano italiano è che si è appena convertito al fondamentalismo, e non se la sente (ancora) di andare fino in fondo. Dunque, critiche serrate ad Harry Potter: ma non sentiamo nulla contro Biancaneve (e la strega?), Cenerentola (e la fata?), la Bella Addormentata nel Bosco (e le tre fatine?). Ma, obietta timidamente il neo-talebano, Biancaneve e Cenerentola (e perfino Tolkien) si situano in un mondo fantastico, mentre Harry Potter confonde i bambini perché si muove nell’Inghilterra dei nostri giorni Vero: ma allora perché non prendersela con Peter Pan (che inizia il suo viaggio dall’Inghilterra dei tempi del suo autore), il Mago di Oz o Mary Poppins? (e al talebano non fate sapere che l’autrice di quest’ultima, Pamela Travers [1899-1996], era una fedele discepola dell’esoterista George Ivanovitch Gurdjieff [1866?-1949]) 9. In verità non c’è scelta: o si riconosce che il linguaggio della magia è stato usato per raccontare storie ai più giovani a partire dalle favole, e in gran parte della letteratura per bambini di tutti i tempi, e che i bambini normali lo hanno riconosciuto intuitivamente come linguaggio e non come fotografia della realtà, o si bruciano sul rogo con Harry Potter anche Peter Pan e Biancaneve, e si manda Cenerentola al ballo solo se indossa rigorosamente la burkha.
Il problema però - tenta di rispondere il talebano - è che il bambino che oggi legge Harry Potter domani aderirà a qualche movimento magico o occulto. Davvero? Ma certo, risponde il talebano: non è forse a tutti noto che i movimenti magici e gli ordini esoterici sono in crescita? La risposta è no. Non è noto agli specialisti, quelli che non si limitano a collezionare ritagli di giornali oppure osservazioni aneddotiche (più o meno "partecipanti") ma seguono l’evoluzione dei movimenti magici, degli ordini esoterici, delle società occulte: i loro aderenti in Italia (e in molti altri paesi) rimangono sotto lo 0,1% della popolazione 10,e la maggior parte di queste organizzazioni (comprese quelle un tempo più grandi) sono semmai in declino. Certo, fanno notizia e audience in televisione (i sociologi Rodney Stark e Laurence Iannaccone scrivevano qualche tempo fa che i media si interessano di più a tredici adepte della neo-stregoneria che ballano intorno a un calderone che non, per esempio, a tredici milioni di Testimoni di Geova) 11: ma le notizie non fanno statistica. E in questi dati c’è la prova empirica che il nostro talebano ha torto: dopo un decennio televisivo, cinematografico e di letteratura popolare in gran parte all’insegna del magico e del paranormale (da X-Files a Streghe, e da Ghost a Buffy) ci si dovrebbe aspettare che i giovani si affollino alle porte dei movimenti magici: succede invece esattamente il contrario. Qualora poi si sostenesse (più seriamente) che non le appartenenze ma le credenze magiche sono in aumento, si potrebbe rispondere che sono assai presenti nella società e tra i giovani, ma – a credere alle indagini sociologiche – sono costanti da diversi lustri (forse anche da prima, ma mancano i dati): dunque, all’aumento della fiction magica non è neppure provato che corrisponda un aumento delle credenze nella magia. Aumentano solo i ritagli di giornali, e la fiction magica si auto-riproduce, nel senso che ai prodotti di qualità si affiancano tentativi d’imitazione più o meno rozzi: ma questo, esattamente, che cosa prova?
9 Cfr. i miei "Il maestro e Mary Poppins", Letture, anno 50, quaderno 521, novembre 1995, pp. 24-29; e "Mary Poppins goes to Hell: Pamela Travers, Gurdjieff and the Rhetorics of Fundamentalism", in SEYMOUR B. GINSBURG - H. J. SHARP - NICOLAS TERESHCHENKO (a cura di), The International Humanities Conference: All and Everything 96, The Conveners of the International Humanities Conference: All and Everything 96, Littlehampton (West Sussex), pp. 153-167.
10 Cfr. i dati riportati in M. INTROVIGNE - PIERLUIGI ZOCCATELLI - NELLY IPPOLITO MACRINA - VERÓNICA ROLDÁN,
Enciclopedia delle religioni in Italia, ElleDiCi, Leumann (Torino) 2001.
11 RODNEY STARK - LAURENCE R. IANNACCONE, «Why the Jehovah’s Witnesses Grow so Rapidly: A Theoretical
Application», Journal of Contemporary Religion, vol. 12, n. 2 (maggio 1997), pp. 133-157 (p. 155).
E le ragazzine sataniste (o sedicenti tali) di Chiavenna che ammazzano le suore? - domanda a questo punto, facendosi persino minaccioso, il nostro talebano. Chi ha qualche familiarità con l’inchiesta sa che le ragazze di Chiavenna non passavano il tempo a leggere Harry Potter, e neanche Tolkien, e neppure a vedere sceneggiati televisivi di supernatural fiction. Si interessavano alla morte, al sesso, alla droga e alla disperazione, e continuavano a girare intorno a questi temi con interminabili corrispondenze e diari. Harry Potter, nel loro caso, avrebbe fatto bene? Manca certo la controprova, ma mi permetto di pensare di sì. Il linguaggio della magia - che è il linguaggio principale della cultura popolare prodotta per i più giovani, non da anni ma da secoli - non è certo un salvacondotto che debba consentire ai prodotti di tale cultura di sottrarsi a un giudizio critico. L’unico esame che possiamo fare alla fiction è di natura morale; l’esame di religione vale solo per i prodotti esplicitamente religiosi (se la televisione mette in scena Padre Pio, lo vogliamo ragionevolmente fedele all’originale). E l’esame di morale Harry Potter lo passa a pieni voti. Contro la confusione postmoderna, c’è una chiara distinzione fra il bene e il male. Ma questa distinzione non è dipinta (come capita nelle produzioni dozzinali, e - ahimè - nei tentativi dei fondamentalisti di produrre cultura popolare) usando solo il bianco e il nero. Si utilizzano tutti i colori della tavolozza, e Harry Potter è in grado di far prevalere il bene solo perché conosce un male che scopre misteriosamente dentro di sé e che deve sconfiggere giorno per giorno.
Il pericolo, semmai, è che la vera magia di Harry Potter - avviare bambini di sette o otto anni alla gioiosa lettura di migliaia di pagine - sia messa in pericolo dalla scorciatoia cinematografica. Contro questo pericolo, suggerendo discretamente un ritorno al testo scritto, i genitori che hanno sperimentato i benefici effetti di Harry Potter dovranno in effetti vigilare. Ma, di fronte all’avvento minaccioso del talebano italiano – che, dopo Harry Potter, si aggirà già alla ricerca di altri obiettivi – si tratta, tutto sommato, di un problema minore. Il talebano va fermato prima che sia troppo tardi, o al prossimo ballo Cenerentola non riuscirà a entrare senza burkha
SULLE TRACCE DI DIO
Trovare Dio ne Il signore degli anelli.
Questo l’arduo e ambizioso compito che mi è stato assegnato. Non è questa una captatio benevolentiae nei
confronti del pubblico che pazientemente mi ascolterà, ma una riflessione che parte da una semplice
constatazione: Dio, nel SdA, non c’è... apparentemente.
Se mi fosse stato chiesto di trovare Dio ne Il Silmarillion sarebbe stato più semplice: è la seconda parola
del libro! Basta infatti aprire la prima pagina e trovarvi scritto:
Esisteva Eru, l’Uno, che in Arda è chiamato Ilùvatar; ed egli creò...
Nel SdA niente di tutto questo, niente miti cosmogonici, niente creatori, niente angeli, niente demiurghi,
niente demoni... tutto è così laico, mondano, direi intra-mondano.
Ma, sottolineo, apparentemente. Apparentemente nel senso che di fronte a quest’opera monumentale, più
di 1200 pagine affascinanti e abbacinanti, il lettore rischia di rimanere disorientato, come ipnotizzato
dalla bellezza della storia e del panorama delle immagini e di perdere quindi di vista la dimensione
della profondità, dello spessore della storia, del senso trascendente che invece anima molte, molte
pagine del romanzo
Dio è quindi nascosto tra le mille pagine, come un animale mimetico nella giungla, che si camuffa
occultandosi nella rigogliosa vegetazione della scrittura tolkieniana.
Questa idea di un occultamento di Dio nel SdA non è una mia fantasia, ma nasce da un’ammissione dello
stesso Tolkien che, in una lettera del dicembre del 1953 scrive a Padre Robert Murray, nipote di Sir
James Murray (il fondatore dell’Oxford English Dictionary) e amico intimo della famiglia Tolkien, che
aveva letto parte del Signore degli Anelli sulle bozze e sul dattiloscritto, e aveva, su richiesta di Tolkien,
mandato critiche e commenti. P.Murray aveva in particolare scritto che il libro gli aveva lasciato una
forte sensazione di “una positiva compatibilità con la dottrina della Grazia”, e paragonava la figura di
Galadriel a quella della Vergine Maria. Dubitava che i critici sarebbero stati in grado di comprendere il
libro: “non troveranno una nicchia opportunamente etichettata”.
Il 2 dicembre 1953 Tolkien risponde così:
“Mio caro Rob, è stato splendido ricevere la tua lunga lettera questa mattina. [...]mi ha specialmente rallegrato
quello che tu hai detto, stavolta e prima, perché tu sei più perspicace, specialmente sotto certi aspetti, di qualsiasi
altro, e hai rivelato persino a me stesso alcune cose del mio lavoro. Penso di sapere esattamente che cosa intendi
con dottrina della Grazia; e naturalmente con il tuo riferimento a Nostra Signora, su cui si basa tutta la mia
piccola percezione di bellezza sia come maestà sia come semplicità. Il Signore degli Anelli è fondamentalmente
un’opera religiosa e cattolica; all’inizio non ne ero consapevole, lo sono diventato durante la correzione. Questo
spiega perché non ho inserito, anzi ho tagliato, praticamente qualsiasi allusione a cose tipo la «religione», oppure
culti o pratiche, nel mio mondo immaginario. Perché l’elemento religioso è radicato nella storia e nel simbolismo.
Tuttavia detto così suona molto grossolano e più presuntuoso di quanto non sia in realtà. Perché a dir la verità, io
consciamente ho programmato molto poco; e dovrei essere sommamente grato per essere stato allevato (da quando
avevo 8 anni) in una fede che mi ha nutrito e mi ha insegnato tutto quel poco che so; e questo lo debbo a mia
madre, che ha tenuto duro dopo essersi convertita ed è morta giovane, a causa delle ristrettezze e della povertà che
dalla conversione erano derivate.”1
Una lettera molto intima, secondo me, ma che possiede una forza universale, cioè getta una luce sul
senso profondo del capolavoro tolkieniano, questo libro così strano (non etichettabile) che è stato letto
da milioni di persone sparse nel mondo e nel tempo.
Quale luce, quale chiave di lettura ci offre la corrispondenza privata tra Tolkien e Murray?
Innanzitutto ci dice qualcosa di interessante su come Tolkien ha scritto il suo libro.
Sembra che Tolkien non sapesse bene cosa aveva in mente quando si è messo a scrivere il SdA: questo è
un punto significativo e anche sorprendente. Chi ha in mente Tolkien, così preciso che, meticolosamente
e con la “mentalità dello storico” si mette a pianificare la storia della Terra di Mezzo, quasi “giocando a
fare Dio”, un Dio onnisciente, preveggente e onnipotente... ecco che qui scopre che questo Dio è
disarmato, che non sa quasi nulla di quello che accade, un Dio al quale, come a molti uomini, gli tocca
scoprire solo dopo, ex post, il significato degli eventi. Noi sappiamo che è così, in realtà: come nacque il
SdA? Come seguito de Lo Hobbit; e come è nato questo romanzo? E’ ormai universalmente noto: “In una
buca sotto il terreno viveva un Hobbit...” scrisse Tolkien sul risvolto di un compito di un suo studente, una
giornata di estate, e aggiunse: quel nome così interessante mi provocava, dovevo saperne di più. Non era stato lui ad escogitare, inventare, trovare gli Hobbit, ma gli Hobbit a trovare lui. Qui invenzione si deve usare
nel senso latino, giuridico, del termine: Tolkien si è imbattuto negli Hobbit e nella Terra di Mezzo. Visto
che si parla di buche, è stato come una buca, che, finché non ci cadi dentro, non la noti: Tolkien ci è
caduto dentro, altrimenti non l’avrebbe nemmeno notata. Capita.
Quindi Tolkien, come sospinto da eventi che non riesce a controllare (un po’ come il suo protagonista Frodo?), scrive e scrive, tesse la rete delle sue storie infinite, che sembrano non avere inizio né fine. Quando arriva ad un punto che potrebbe essere la fine, mi riferisco all’ultimo capitolo “I rifugi oscuri” (che strana fine: che termina con una partenza!) ecco che si rimette a leggere quello che ha scritto, quasi a ritroso e scopre mille cose che forse non s’era accorto di aver messo.
E questa scoperta non finisce lì: quando un lettore acuto come Murray gli mostra alcune trame che la sua rete ha intessuto, ecco che questo assume il volto di una rivelazione per gli occhi dello stesso autore. E sono convinto che anche noi, lettori forse meno acuti di Murray, potremmo mostrare all’autore sentieri di bellezza a lui stesso sconosciuti.
E’ il mistero dell’arte che è sempre e comunque un dono, una rivelazione continua, per cui non c’è forse
un vero “autore” dell’opera d’arte.
Vengono in mente le parole di Flannery O’Connor, scrittrice cattolica anch’essa, che nel suo splendido
saggio “Nel territorio del diavolo” osserva: “... Lo scrittore di narrativa spiega il meno possibile. Il lettore
giunge a collegare le due cose grazie a quanto gli viene rivelato. Forse non si rende nemmeno conto di fare un
collegamento, che però c’è, e sortisce comunque il suo effetto... Il racconto può cosi espandersi in ogni direzione, e
sfuggire in tal modo al suo destino di brevità. Potrei ora dire qualcosa su come ciò avvenga. Non crediate che per
scrivere quel racconto io mi sia seduta a tavolino dicendo: «Adesso scriverò un racconto su una dottoressa con una
gamba di legno usando quest’ultima come simbolo di un altro genere di tormento». Dubito siano poi tanti gli
scrittori che quando si mettono all’opera sappiano già quel che vogliono. Nel cominciare il racconto, non sapevo
nemmeno che ci avrei messo dentro una dottoressa con una gamba di legno. Semplicemente, una mattina mi sono
trovata a descrivere due donne di cui sapevo un paio di cose, e, prima che me ne rendessi conto, una delle due era
già stata dotata di figlia con gamba di legno. Man mano che il racconto procedeva, ho introdotto anche il venditore
di Bibbie, pur non avendo ancora idea di cosa ne avrei fatto. Fino a dieci o dodici righe prima non sapevo nemmeno
che avrebbe rubato la gamba, ma quando ho scoperto quanto stava per accadere, ho capito che era inevitabile. E una
storia che sciocca il lettore, e una delle ragioni è che ha scioccato per primo il narratore. Nonostante sia nato cosi,
in questo modo apparentemente involontario, il racconto non ha quasi subito revisioni. Sono riuscita a controllarlo
durante l’intera stesura, e vien da chiedersi come abbia fatto, non essendone completamente cosciente. Credo che la
risposta stia in quel che Maritain definisce «l’habitus dell’arte» Che lo scrivere narrativa sia un qualcosa dove in-
terviene l’intera personalità - il lato conscio come quello inconscio della mente - è un dato di fatto. L’arte è
l’habitus dell’artista; e come tutte le abitudini deve mettere radici profonde in tutta la personalità, e va coltivata
nel tempo, mediante l’esperienza. Insegnare a scrivere, in generale, consiste soprattutto nell’aiutare lo studente a
sviluppare quest’habitus. Pur trattandosi di una disciplina, non credo si riduca solo a questo; credo sia un modo di
guardare al creato e di usare i sensi per cogliere nelle cose quanto più significato possibile. ....Credo che l’unico
modo per imparare a scrivere racconti sia scriverne, e poi, in un secondo tempo, cercare di capire quel che si è fatto.
Soltanto col racconto già sotto gli occhi, si può riflettere sulla tecnica. Quel che l’insegnante può fare per lo
studente e esaminare il suo lavoro aiutandolo a capire se abbia scritto una storia compiuta, una storia in cui
l’azione illumini appieno il significato...”2
Ma cosa aveva scoperto Tolkien ritornando sulle sue tracce? Cosa aveva incontrato rileggendo il suo
capolavoro? Aveva scoperto che “Il Signore degli Anelli è fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica;
all’inizio non ne ero consapevole, lo sono diventato durante la correzione”.
Non solo religiosa, badate bene, ma addirittura cattolica. Penso che questa frase abbia dato molto
fastidio a molta parte della critica, non a caso non viene quasi mai citata. Il fatto che il SdA sia un’opera
religiosa forse non dà poi molto fastidio: quale opera d’arte può dirsi non religiosa? Ma che sia anche
“cattolica” appare un po’ troppo. E’ vero, si potrebbe dire, Tolkien era cattolico, profondamente
cattolico, d’accordo ma questo è un fatto privato, che riguarda l’uomo-Tolkien, cosa c’entra con il
Tolkien-artista? Questa visione, personalmente, mi appare alquanto miope e piccina. Luca Doninelli,
nell’introduzione al bellissimo volume antologico “Letteratura moderna e cattolicesimo” di Charles
Moeller ha osservato che “...arte e vita sono, infatti, due aspetti di un’unica realtà, ma sono anche due aspetti
profondamente diversi...”. Diversità nell’unità. Non bisogna né confondere né contrapporre vita e arte o
trascurare uno dei due elementi.
Ma il grande equivoco sulla cattolicità del SdA è nato e si è alimentato dal fatto espresso dalla frase successiva di Tolkien, quando dice che: “Questo spiega perché non ho inserito, anzi ho tagliato, praticamente qualsiasi allusione a cose tipo la «religione», oppure culti o pratiche, nel mio mondo immaginario. Perché l’elemento religioso è radicato nella storia e nel simbolismo.
E’ vero: non troveremo allusioni a cose tipo la religione nel SdA: c’erano ma l’autore le ha tagliate tutte. Che cattiveria! E che rischio che ha corso! Il rischio si è concretizzato in quello strano fenomeno che abbiamo sotto gli occhi da circa 50 anni: il SdA è stato etichettato in mille modi ma si è spesso voluto dimenticare che la vera radice, la matrice culturale dell’opera è il cattolicesimo.
Perché Tolkien lo ha fatto? Lui dice “Perché l’elemento religioso è radicato nella storia e nel simbolismo" (e poi cercheremo di ritrovarlo, questo elemento) ma, ripeto, perché lo ha fatto?
TOLKIEN E LEWIS
A questo punto bisogna aprire una piccola parentesi sull’amico più celebre di Tolkien, il filologo di nascita irlandese C.S.Lewis. Come è noto Lewis da ateo passò al cristianesimo anche grazie ai buoni uffici di Tolkien. Come è inoltre noto anche Lewis scrisse una trilogia fantastica come Tolkien, solo che lui ambientò nello spazio, mentre Tolkien collocò la sua storia nella Terra di Mezzo che è il nostro pianeta ma in un’altra era. Se si legge la trilogia fantascientifica di Lewis (così come le altre opere di narrativa) si rimane colpiti da quanto trasudino religione, cristianesimo. Non c’è alcuna mediazione artistica: si tratta di opere teologiche prima ancora che narrative. Il fatto è che per il convertito, il neofita, Lewis il cristianesimo è la «buona battaglia da combattere», è una bandiera, un vessillo.
Di conseguenza tutte le sue opere saranno apertamente e dichiaratamente opere «cristiane», tese anche, magari, a trasformare il lettore. Lewis ha sempre presente di fronte a sé, la Bibbia, il libro che più di ogni altro interroga, trasforma chi gli si avvicina. In un saggio sulla critica letteraria Lewis afferma: «Leggendo le grandi opere della letteratura divento migliaia di uomini e allo stesso tempo rimango me stesso. Come il cielo notturno della poesia greca vedo con una miriade di occhi ma sono sempre io a vedere, qui come nella religione, nell’amore, nell’azione morale e nella conoscenza, supero me stesso; eppure, quando lo faccio, sono più me stesso che mai».3
Per Tolkien le cose sono un po’ diverse. Anche lui tiene ben presente, di fronte a sé, la Bibbia come principale modello letterario. E’ il “Grande Codice” di cui parla il critico Northrop Frye, è un testo, quello biblico, che Tolkien conosce anche meglio di Lewis, visto che, tra l’altro, ha contribuito, anche se in piccolissima parte, alla realizzazione della Bibbia d i Gerusalemme. Lo ha così ben presente che se sovrapponiamo i contenuti della Bibbia e quelli del Silmarillion e del Signore degli anelli, e li guardiamo in controluce, troveremo una sostanziale e sorprendente affinità. Una somiglianza appunto di contenuti, perché le forme sono diverse, e quanto diverse! Tanto diverse che questa lettura «biblica» dell’opera di Tolkien, non è accettata da alcuni critici né avvertita da molti lettori. Tolkien invece, nelle due opere principali che ha scritto, «Il Silmarillion» e «Il signore degli anelli», ripercorre, precisamente, il cammino delle Sacre Scritture: Antico e Nuovo Testamento. La grande storia del Silmarillion che inizia con la cosmogonia, prelude e ricomprende la piccola ma decisiva storia di pochi anni della vita del piccolo Hobbit Frodo, proprio come i tre anni di vita pubblica del figlio del carpentiere di Nazareth portano a compimento le grandi storie e le profezie racchiuse nella tragica epopea del popolo d’Israele.
Tutto questo, Tolkien, lo ha fatto volutamente? No: come sopra detto, Tolkien ha ben poco programmato di quanto ha scritto. Lo ha fatto coscientemente? Ha consapevolmente riprodotto, con una nuova veste ed un nuovo linguaggio (che poi è quello antico dell’epica) i contenuti e le suggestioni delle Sacre Scritture? Qui forse il critico si deve arrestare. Deve avere la forza di non invadere il campo più privato ed interiore dell’artista. Qui forse i sentieri di arte e vita si biforcano e si diramano e il critico deve avere la forza e la discrezione di fermarsi sulla soglia del mistero che circonda la vita di ogni uomo-artista. E’ questo l’auspicio che lo stesso Tolkien si fa in più occasioni nel suo vasto epistolario che, per fortuna, è stato conservato dandoci la gioia di conoscere quale grande spirito si celasse dietro lo schivo e riservato autore di opere di così grande successo: «Una delle mie più radicate convinzioni» scrive in una delle ultime lettere, datata 1971, «è che investigare sulla biografia di un autore sia un modo inutile e sbagliato di accostarsi alle sue opere e specialmente ad un’opera di arte narrativa, di cui lo scopo, proclamato dall’autore, era quello di divertire...»4 e in un’altra del 1958 «...sono contrario alla tendenza attuale della critica, con il suo eccessivo interesse per i dettagli delle vite degli autori e degli artisti. Questi non fanno altro che distogliere l’attenzione dalle opere di un autore (se le opere sono degne di attenzione), e finiscono, come si può spesso constatare, per costituire il motivo principale di interesse. Ma solo l’angelo custode di ognuno di noi, oppure Dio stesso, è in grado di svelare la vera relazione che c’è tra i fatti personali e le opere di un autore.» 5
Le parole iper-cattoliche di Tolkien fanno venire in mente quelle dello scettico (ma sullo scetticismo di
Borges io sarei molto scettico) che, peraltro, affermava: «Ogni poesia è misteriosa; nessuno sa interamente ciò
che gli è stato concesso di scrivere».
L’arte avviene secondo l’affermazione di Whistler. Dal punto di vista cristiano si potrebbe dire che l’arte
è una grazia, un dono. Questo dono che l’artista riceve non è però considerato come un tesoro geloso
ma viene comunicato, ulteriormente donato agli altri. Un artista scrive, dipinge, scolpisce, compone per comunicare, magari per comunicare solo la gioia del dono ricevuto. Gli altri, il pubblico (magari fatto da
pochi amici o solo dalla persona amata...la quantità non conta) sono sempre fondamentali: l’artista non
insegue il pubblico ma comunque gli parla, gli dice qualcosa.
Il punto, per quanto riguarda Tolkien, sta nel non rivelare la fonte, la sorgente di quel dono. Sembra che per Tolkien ci sia più efficacia nel non rivelare il nome di Dio che nell’evidenziarlo.
Si potrebbe dire così: Lewis è Achille, invincibile nella sua armatura cristiana, Tolkien è come Ulisse, costretto ad inventarsi il cavallo di legno per piegare la resistenza dei Troiani. Suona un po’ buffo questo parallelismo anche perché, a leggere le biografie dei due amici, si potrebbe benissimo rovesciare il paragone, essendo Tolkien quasi monolitico nella sua fede, vissuta intensamente, e invece rivelandosi Lewis un animo più tormentato, inquieto, direi dubbioso...
Vi parlerò un attimo di quello che mi è capitato leggendo il SdA.
L’ho letto a 12 anni. Si capiscono tante cose a quell’età (che magari oggi non capirei più) e tante altre
invece non si comprendono (e che invece oggi magari colgo subito con la mia sensibilità di 36enne,
padre di famiglia, professore di religione etc. etc.).
Non capii allora, per esempio, tutto il peso di quella matrice cattolica radicata nella storia e nel
simbolismo. Mi piaceva la storia che vi era raccontata, mi trafiggeva il cuore fino alle lacrime e volevo
subito ricominciare a leggerla, cosa che feci ovviamente e da allora continuamente rileggo questo
romanzo scoprendovi sempre cose vecchie e cose nuove. Poi lessi il bellissimo invito alla lettura di
Tolkien scritto da Emilia Lodigiani e fu una lettura illuminante a dir poco. E’ stata la Lodigiani a
spiegarmi perché Tolkien mi piaceva tanto. E lo fece portando alla luce la ricchezza etica e spirituale del
romanzo, che io avevo guardato ma non visto. Come quando si impressionano delle lastre fotografiche
che però poi non vengono sviluppate, le lastre rimangono nere, anche se possiedono in sé la bellezza
che hanno incontrato. Ci vuole un qualcosa che riesca a far uscire fuori quella bellezza potenziale, quel
bozzolo, quelle lastre immagazzinate disordinatamente e sordamente. Ed ecco che la Lodigiani fece
volare la farfalla, diede colore alle mie lastre nere. E dopo la Lodigiani si aggiunse anche il padre gesuita
Guido Sommavilla, che nei suoi lunghi articoli ha raggiunto vette e acutezze formidabili nella
comprensione dell’opera tolkienana.
Il più era fatto: anch’io mi buttai nella lettura di Tolkien alla luce dei miei studi teologici. Ho scritto
anche qualche articolo giornalistico sui miei risultati e, da ultimo, un saggio insieme all’amico Saverio
Simonelli. Ma mi sono dilungato anche troppo sul mio rapporto con Tolkien.
Torniamo a cercare questo Dio nascosto tra le righe del romanzo più letto del mondo, dopo la Bibbia.
Mi ha sempre colpito questa statistica: la Bibbia e il SdA. Visto che, secondo me, i due libri hanno molto
in comune, il dato mi colpisce fortemente: è come se rivelasse la sete di infinito che è racchiusa dentro il
cuore dell’uomo.
TOLKIEN, GENITORE E (SUB)CREATORE
Tolkien ha quindi nascosto Dio nelle pieghe della sua opera. Non troveremo una citazione esplicita della divinità, né altro richiamo anche indiretto. Come tutti i lettori accaniti di Tolkien ben sanno, l’unico lapsus che l’autore ha commesso nel suo lavoro di setaccio al fine di eliminare ogni segno di religiosità si trova nella famosa scena della preghiera silenziosa che Faramir e i suoi uomini dell’Ithilien compiono prima del pasto ad Henneth Annùn, la finestra che guarda ad occidente.
Abbiamo accennato al perché Tolkien agì così, camuffando, occultando. Fu anche una forma di pudore, e insieme un segno dell’autenticità della sua fede. Per Tolkien la fede cristiana non era un particolare, un accidente, ma la cosa più seria ed importante della sua vita, ciò che le donava senso e finalità. Leggendo le sue lettere ci rendiamo conto di come Tolkien vivesse la sua cattolicità, con quale gravità e intensità. Anche il suo romanzo, così ossessivamente amato, passava in secondo piano.
Mi ha sempre colpito quella lettera in cui Tolkien dice...
“... benché un critico abbia affermato che le invocazioni di Elbereth e la figura di Galadriel nelle descrizioni dirette (e attraverso le parole di Gimli e Sam) siano chiaramente collegate alla devozione cattolica a Maria. Un altro ha visto nel pane da viaggio (lembas) un viaticum e nel fatto che nutre la volontà e che è più efficace quando si è digiuni un riferimento all’Eucarestia. (Cioè: la mente indugia in cose molto elevate anche quando si occupa di cose meno elevate come una storia fantastica.)”6
Questo era Tolkien, religiosamente votato al suo romanzo, alle sue storie, ma sempre pronto poi a distaccarsene... in un’altra lettera si dice non pienamente soddisfatto del suo capolavoro, e infine confessa: “Naturalmente “Il signore degli anelli” non mi appartiene. E’ stato portato a termine e ora deve andare per la sua strada, nel mondo, benché sia naturale che io provi molto interesse per le sue fortune, come un genitore si interessa ad un figlio. Mi conforta il sapere che ha dei buoni amici che lo difendono contro la cattiveria dei suoi nemici. (Ma gli sciocchi non sono tutti nel campo avverso)”7.
Il libro come un figlio. Anche Fellini parlava così dei suoi film, veri e propri figli che abbandonavano il padre nel momento dell’ultimo ciak per incominciare finalmente a vivere la propria vita attraverso le migliaia di proiezioni, visioni ed interpretazioni future. Per Tolkien, che di figli se ne intendeva, è senz’altro vera l’affermazione contenuta in “Ortodossia” capolavoro del suo “padre spirituale” Gilbert Keith Chesterton: "Non e' l'immaginazione che produce la pazzia; e' la ragione. I giocatori di scacchi diventano pazzi, non i poeti; i matematici, i cassieri possono diventare pazzi, non gli artisti che creano...la paternità artistica e' un fenomeno di sanità come la paternità fisica... i critici sono assai più pazzi dei poeti..."8
Bisognerebbe mettere più in luce la grandezza del Tolkien-genitore o pro-creatore che forse è di gran lunga superiore della grandezza del Tolkien-scrittore o sub-creatore. Un altro segnale di come Tolkien considerasse la sua appartenenza alla fede cristiana lo ricaviamo, indirettamente, dallo svolgimento del suo funerale. Ce lo racconta Humphrey Carpenter nell’ultima pagina della biografia: la messa fu celebrata dal figlio sacerdote, John, e oltre alle letture “canoniche”, non ci furono altre letture estratte dalle opere dello scrittore, né altre “innovazioni” sul rito e la liturgia funebre. Come a dire: non mischiamo in modo promiscuo e disordinato cose così umane con le cose divine, che sono le cose che restano, quelle serie, quelle vere.
Mi ha sempre colpito e commosso una riflessione di Tolkien sulla messa e sulla presenza di Dio in essa, è una riflessione che il vecchio papà Tolkien dona al figlio Michael in una delle sue ultime lettere, del primo novembre 1963 in cui scrive: “L’unico rimedio contro il vacillare e l’indebolirsi della fede è la Comunione. Benché sia sempre lo stesso, perfetto e completo e inviolato, il Santo Sacramento non agisce completamente e una volta per tutte in ognuno di noi. Come l’atto di Fede deve essere ripetuto e così accresce la sua efficacia. La frequenza garantisce il massimo effetto. Sette volte alla settimana è più efficace che sette volte dopo lunghi intervalli. Inoltre ti raccomando questo esercizio (ahimè! è fin troppo facile trovare il modo di praticarlo): fa’ la tua Comunione in un ambiente che urti i tuoi sentimenti. Scegli un sacerdote che borbotta e tira su col naso oppure un frate orgoglioso e volgare; e una chiesa piena della solita folla borghese, bambini maleducati — da quelli che gridano a quei prodotti delle scuole cattoliche che nel momento in cui il tabernacolo viene aperto si siedono e sbadigliano — giovani sporchi e con le camicie sbottonate, donne in pantaloni e spesso con i capelli arruffati e senza velo. Vai a fare la Comunione insieme a loro (e prega per loro). Sarà la stessa cosa (o anche meglio) che assistere ad una messa detta splendidamente da un sant’uomo e ascoltata da poca gente devota e decorosa. (Non sarà mai peggio della confusione di quando Gesù nutrì i cinquemila - dopo di che annunciò quello che sarebbe stata la Comunione.)”9
TOLKIEN E MANZONI
Per Tolkien Dio quindi non era un accidente. Era l’unica realtà, la più reale, la più vera di tutte. Egli era un credente nel senso di cui parla Faulhaber: “I miscredenti possono essere superficiali, i credenti no”; Dio è la cosa più seria del mondo: “A Dio puoi solo dire sì o no; non è permesso giocare con lui” afferma H.Urs Von Balthasar.
Se per Tolkien Dio è nella realtà, anzi è La Realtà, trovare Dio nelle sue opere non dovrebbe essere difficile. Dobbiamo solo tener presente quel fatto che Tolkien gioca a nascondere Dio, a tenerlo occultato, disperso come il sale negli interstizi più piccoli della realtà. Per lo scrittore inglese è vero quello che affermava un’antica tradizione spirituale orientale e cioè che “...il divino è celato solo nelle cose comuni... La santità è una cosa misteriosa: quanto più è grande, tanto meno la si nota”.
Si sente, molto forte, la lezione di Chesterton per cui “tutto passerà, resterà solo lo stupore e lo stupore per le cose quotidiane”. Chesterton che con il memorabile Innocenzo Smith, protagonista de “Le avventure di un uomo vivo”, come scrive Mircea Eliade, “ci fa vedere benissimo che abbiamo perduto il senso del meraviglioso proprio perché lo cerchiamo, invece di vedere che è in mezzo a noi. Cerchiamo il miracoloso ed il romantico, come cerchiamo la felicità, l’amore perfetto e la saggezza, senza accorgerci che sono intorno a noi, in attesa che li vediamo”.10
E così Tolkien inventa gli Hobbit: la gente meccanica e di piccolo affare, direbbe il Manzoni proprio per parlare della quotidianità e dello stupore che sono le condizioni per vedere Dio. E così Tolkien ci parla, proprio come Manzoni, di come la piccola storia di due Hobbit inquieti e sventurati (Bilbo e Frodo) si intreccia con la grande Storia della fine della Terza Era della Terra di Mezzo. E così Tolkien, proprio come Manzoni, ci parla di come protagoniste della storia, piccola e grande, siano in realtà la Grazia e la Provvidenza, ovvero sia, sotto falso nome, Dio stesso.
Grazia e Provvidenza si intrecciano di continuo nel romanzo dalla prima all’ultima pagina ma il loro apparire è discreto, non è mai sottolineato, è sempre silenzioso e quasi impercettibile.
Proviamo a tirar fuori qualche traccia di Dio dal romanzo, cercando di non guastare la bellezza limpida, compatta e coerente del capolavoro tolkieniano.
“Perché è toccato a me? Come mai sono stato scelto io?” chiede Frodo all’inizio della storia. “Queste sono domande senza risposta” risponde Gandalf, “Puoi credere che ciò non è dovuto ad alcun merito particolare o personale: non certo per via della forza o della sapienza, in ogni caso. Ma sei stato scelto tu, ed hai dunque il dovere di adoperare tutta la forza, l’intelligenza ed il coraggio di cui puoi disporre”11.
Niente meriti: il merito, paradossalmente, è non averne. Che virtù ha Frodo? Apparentemente nessuna. La disponibilità, forse la pazienza; ma la pazienza, diceva Pascal, è la virtù più eroica perché non ha nulla di eroico. E a guardare Frodo, homo patiens, ci si rende conto di che nuovo modello di eroismo abbia in mente Tolkien.
Una cosa bella del personaggio di Frodo, è che lui, e ancora di più il suo amico fedele Sam, non capisce fino in fondo cosa sta accadendo. Non controlla mai la situazione. Quando decide di partire da Gran Burrone, quando offre la sua disponibilità dice: “Prenderò io l’Anello, ma non conosco la strada”12. Per Frodo è vero quello che scriveva Martin Buber: “Ciò che Dio richiede da me in quest’ora lo apprendo quando mi accade, e non prima che mi accada.”
In altre parole la presenza della Grazia che dirige e richiama tutte le forze dell’uomo secondo il disegno
della Provvidenza non schiaccia la libertà e la responsabilità dell’uomo.
“Avrei tanto desiderato che tutto ciò non fosse accaduto ai nostri giorni!” esclamò Frodo. “Anch’io” annuì
Gandalf, “come d’altronde tutti coloro che vivono questi avvenimenti. Ma non tocca a noi scegliere. Tutto ciò che
possiamo decidere è come disporre del tempo che ci è dato”.13
Ma sul tema della Provvidenza i due brani più espliciti del romanzo forse sono quello all’inizio della storia, a pagina 89 della Compagnia dell’Anello, quando il mago Gandalf afferma che: “Vi era un’altra forza in gioco, che il creatore dell’anello non avrebbe mai sospettato. E’ difficile da spiegarsi, e non saprei essere più chiaro ed esplicito. Bilbo era destinato a trovare l’anello”, e poi soprattutto l’affermazione a pag.307 quando, citando indirettamente un’idea di divinità o di Essere Superiore, il saggio Re Elrond così introduce il Consiglio da lui convocato: “Questo è il motivo per il quale siete stati tutti chiamati qui. Chiamati, dico, pur non avendovi io chiamati a me, stranieri di remoti paesi. Siete venuti e vi siete incontrati, in questo breve lasso di tempo, parrebbe quasi per caso. Eppur non è così. Sappiate che è stato ordinato che noi seduti in questo luogo, noi e non altri dobbiamo trovare una soluzione al pericolo che corre il mondo”.
La responsabilità dell’uomo quindi non è schiacciata ma messa nelle condizioni per essere esercitata. La
Grazia viene in soccorso proprio per questo.
Come scrive Dietrich Bonhoeffer proprio in quegli anni tragici “Sono fermamente convinto che Dio ci
concederà in ogni situazione tanta forza quanta ne abbiamo bisogno. Ma non la dà in anticipo affinché non ci
fidiamo di noi, ma di lui soltanto.”
Aragorn così si presenta agli Hobbit, sotto i logori e inquietanti panni di Grampasso: “Non vi chiedo più di quanto voi possiate offrire”.14
TOLKIEN, PAOLO, AGOSTINO E... GOLLUM
Sono, tutti questi, temi squisitamente paolini (e quindi agostiniani) con i quali Tolkien ha una tale confidenza che quasi inavvertitamente calano nel tessuto del romanzo. Pensiamo all’idea, tutta agostiniana, del Male come Non-Essere, come privazione dell’Essere. Sauron, il Signore malefico degli anelli, è un’ombra, distante ed impalpabile. Il suoi più fidati servitori sono gli Spettri dell’Anello e il suo Luogotenente è chiamato “La Bocca di Sauron” perché si è dimenticato il suo vero nome. Il suo esercito di orchi poi è il massimo dell’anonimato. Tranne pochissimi casi, nei dintorni delle due torri, Isengard e Cirith Ungol, noi non veniamo mai a conoscere i nomi di questi soldati, schiavi del terrore.
Gollum è un perfetto esempio di questo concetto. Il Male corrode e corrompe la persona al punto da spegnerla, da renderla sbiadita, spettrale. Smeagol dimentica il suo nome e diventa Gollum. L’Anello, talismano del Potere, in realtà è privo di poteri ma dona longevità e invisibilità: l’esistenza dei portatori degli anelli, se si lasciano corrompere dalla bramosia del possesso, diventa un’esistenza infernale, infinita e sempre uguale. L’umanità si assottiglia fino a scomparire se cade nelle grinfie della avidità e della gelosia. Là dove sarà il vostro tesoro sarà il vostro cuore. E Gollum è il personaggio più struggente e disperato del romanzo: un uomo che ha perso il cuore, l’anima e che non riesce a riscattare la propria esistenza dannata, perduta. C’è un momento, verso la fine della storia, in cui egli potrebbe riscattarsi e redimersi per sempre: accade lungo il cammino nelle terre di Mordor, attraverso le quali l’infido Gollum conduce le piccole “spie”, Frodo e Sam. I due hobbit della Contea si sono addormentati e Gollum si avvicina a Frodo. Il suo comportamento pietoso e generoso ha colpito e forse commosso l’indurito Smeagol che si sta arrovellando davanti ad una terribile alternativa: approfittare del sonno per rubare l’Anello o pentirsi e unirsi alla missione delle due spie? Purtroppo la sua “conversione” rimarrà potenziale, l’attimo fuggente sfuma subito anche perché non viene colto da un Frodo addormentato e tantomeno da quell’hobbit, ancora troppo “hobbit”, che è Sam (solo quando avrà sperimentato anche lui il peso dell’anello, egli diventerà un hobbit eccezionale). Il fedele, ma geloso Samwise, svegliatosi di soprassalto, senza nemmeno conoscerne le intenzioni, scaccerà brutalmente l’infelice Gollum lontano dal suo amato padrone e, soprattutto, lontano dalla possibile redenzione e rinascita di Smeagol. Mr.Hyde ha vinto: il vecchio e contorto hobbit non ha superato la prova e, ormai per sempre, rimarrà Gollum. Su questa possibilità di riscatto di Smeagol-Gollum la critica non si è quasi mai soffermata e invece si tratta, a detta di Tokien, del “momento più tragico della storia”15. Per un attimo, infatti, un personaggio, che era diventato schiavo dell’Anello, intraprende un cammino di redenzione. Purtroppo la grettezza dei suoi compagni di viaggio (i buoni!) interrompe questo accenno di conversione. Gollum è perduto; ma la sua presenza permette, inconsapevolmente, oggettivamente, la realizzazione dei disegni della Provvidenza.
Questo tema è sin dall’inizio sottoposto all’attenzione del lettore: nel secondo capitolo del SdA, quando il mago Gandalf spiega a Frodo come l’Anello gli sia giunto passando per le mani dello zio Bilbo che a sua volta lo aveva sottratto a Gollum. Ad un certo punto Frodo esclama: “Che peccato che Bilbo non abbia trafitto con la sua spada quella vile e ignobile creatura quando ne ebbe l’occasione!” “ Peccato?” si chiede Gandalf. “Fu la Pietà a fermargli la mano. Pietà e Misericordia: egli non volle colpire senza necessità. E fu ben ricompensato di questo suo gesto, Frodo. Stai pur certo che se è stato grandemente risparmiato dal male, riuscendo infine a scappare ed a trarsi in salvo, è proprio perché all’inizio del suo possesso dell’Anello vi era stato un atto di Pietà”16. Quindi Bilbo si è salvato per il suo antico gesto di pietà. Tutto il contrario accade a Gollum perché all’inizio del suo possesso dell’Anello non vi è stata pietà ma violenza. La sua conversione quindi dura un attimo e subito si spegne. Ma una speranza continua ad esserci.
Continuando il racconto allo sbalordito Frodo, Gandalf afferma: “Ho poca speranza che Gollum riesca ad essere curato ed a guarire prima di morire. Ma c’è una possibilità. Egli è legato al destino dell’Anello. Il cuore mi dice che prima della fine di questa storia l’aspetta un’ultima parte da recitare, malvagia o benigna che sia; e quando l’ora giungerà, la pietà di Bilbo potrebbe cambiare il corso di molti destini, e soprattutto del tuo.” 17.
In altri termini: il bene compiuto produce altro bene che si espande e si estende, in modo misterioso, nello spazio e nel tempo. E’ un altro tema fondamentale, quello evidenziato da Merry quando parlava della pace assicurata, dagli altri popoli, alla Contea. “Il terreno nella Contea è profondo” dirà Merry, “Tuttavia ci sono cose ancora più profonde e più alte; e se non fosse per loro, un giardiniere non potrebbe curare il suo giardino in quella che lui chiama pace”18.
E’ il tema più “teologico”, legato alla dottrina del Corpo Mistico e della Comunione delle Cose Sante. Se non si considera la visione della Grazia e della Provvidenza propria del cattolico Tolkien, ben poco si capirebbe del senso della storia. Infatti, deve essere chiaro (e Tolkien lo sottolinea spesso nelle sue lettere) che Frodo, il protagonista del romanzo, è un eroe talmente “originale” da fallire nella sua missione19. Il fatto che Frodo fallisca è invece un altro particolare (come quello della origine hobbit di Gollum) che spesso viene rimosso. Si tratta, al contrario, come è ovvio, di un dettaglio fondamentale, alla cui luce si capisce che la questione ottimismo/pessimismo, per Tolkien, è mal posta.
Qui abbiamo un personaggio, Frodo, che è un anti-eroe, anzi, meglio, un anti-Faust: non vuole ottenere ma perdere, non possiede nessuna virtù “militare”, ma solo la virtù della pazienza, la “pazienza pascaliana”. Frodo, hobbit paziente, non deve conquistare ma rinunciare, rifiutare il potere, impresa per certi versi più difficile, eppure, imprevedibilmente, conduce la sua missione fino in fondo. Giunto al momento conclusivo, però, le sue forze cedono e vi è il crollo che sarebbe definitivo e distruttivo se non intervenisse un altro hobbit, molto meno paziente: Gollum. La sua avidità questa volta permette l’Eucatastrofe, il Lieto Fine, il capovolgimento improvviso e gioioso. L’esistenza di Gollum in quel momento è assicurata, causata dall’antico gesto di pietà di Bilbo nei confronti dello sventurato hobbit possessore dell’Anello (gesto perpetuato dal nipote Frodo e dal fido Sam lungo il viaggio verso Mordor). Solo a causa di quell’atto compiuto in precedenza e da altre persone, la missione di Frodo si compie. In questo spiazzante finale in cui un Altro (Dio, la Provvidenza, la Grazia?) emerge come unico e nascosto protagonista, ritroviamo tutta la formazione e la cultura cattolica del filologo inglese John Tolkien accanto al suo sano realismo.
Frodo e Sam riescono ad avere pietà e risparmiare Gollum solo perché, come lui, anch’essi sono
portatori dell’Anello, ne conoscono quindi il pesante fardello, la terribile condizione di angoscia e
solitudine. La pietà verso il peccatore nasce solo in chi ci si riconosce.
La consapevolezza del (proprio) peccato è il primo gradino per l’ascesi, la riconciliazione con se stessi e
il mondo. La storia umana è piena di Male, ci dice Tolkien, e “al potere del Male nel mondo le creature
incarnate, per quanto buone, non possono resistere fino alla fine...” ma ci rassicura: “chi ha scritto la Storia non
è uno di noi”20.
“Per Tolkien” osserva Oriana Palusci, “come per Borges e per la cultura medievale rivisitata da J.M. Lotman e da B.A. Uspenskij, il mondo è un testo, le cui pagine sono gli episodi di una cronaca che si sdipana fino al presente.” 21. Se il mondo è un testo, allora Dio è colui che ha scritto la Storia e gli uomini sono, volenti o no, tutti dei “filologi”.
Non si tratta allora di essere geniali creatori ma solo dei fedeli interpreti. In questo senso cadono come foglie le facili dicotomie pessimismo-ottimismo e progresso-conservazione: conservare che cosa? Nulla ci appartiene e non esistono “paradisi” in terra – nemmeno la Contea o Lothlorien - da difendere sempre e contro tutti. Il compito allora è quello di essere umili filologi di una storia che, per fortuna, non ci vede come autori, ma solo personaggi del nostro piccolo (ma indispensabile) ruolo perché “...non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo; il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo, al fine di lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare. Ma il tempo che avranno non dipenderà da noi”22. Il tema della Provvidenza e di come essa interroghi e sproni la responsabilità dei singoli e delle comunità è riconfermato nella solenne affermazione di Gandalf posta quasi alla fine del romanzo.
Il SdA è un romanzo che ha riportato al centro della letteratura il genere epico. Di questo non saremmo
mai troppo grati allo schivo professore di Oxford. Epico sì, ma mai solenne. La lingua usata da Tolkien
è scarna, semplice, piana. Niente barocchismi, niente pomposità. Anche questo, secondo me, rispecchia
la mentalità sopra accennata: il sacro, il divino, il santo, si cela nelle cose più um
John Ronald Reuel Tolkien: ovvero un caso letterario le cui dimensioni vanno oltre il valore dell'opera dello studioso inglese, e che testimoniano il suo significato di maestro, in una società che di buoni maestri ne ha un disperato bisogno. Sono passati ormai molti anni dalla pubblicazione del capolavoro di questo scrittore, Il Signore degli Anelli, (1954-55) ma l’interesse per questo autore resta ancora alto. Nel 1997 un referendum tenutosi tra tutti i lettori frequentatori delle librerie britanniche ha proclamato Il Signore degli Anelli libro del secolo; un responso che ha suscitato un certo disappunto tra la critica ufficiale, dal momento che Tolkien è ancora considerato dall’intellighentia-snob un autore per ragazzi. Ma a dispetto di tutte le accuse più o meno malevole e ingiustificate rivolte da anni a questo scrittore, Tolkien va ormai considerato non solo un autore di successo, ma anche come un autentico classico. Egli ha riproposto, in pieno ventesimo secolo, il genere letterario epico, ridando dignità letteraria all’antichissimo genere della narrativa dell’immaginario, nonostante il cinismo di una cultura dominante che, come Brecht insegnava, doveva fare a meno dei valori, in particolare dell'eroismo. Il professore di Oxford è divenuto così un maestro, un punto di riferimento esistenziale per generazioni di giovani lettori che si sono commosse ed esaltate alla lettura delle sue pagine epiche - così lontane dal realismo spesso squallido che ha imperato a lungo in letteratura- che narravano giustappunto di eroi, di regni perduti da restaurare,di signori del male contrapposti ad elfi, cavalieri e piccole gentili creature, pronte però ad ogni sacrificio per il trionfo del bene: gli Hobbit, personaggi peculiarmente ed assolutamente tolkieniani.
Nato in Sudafrica nel 1892 da genitori inglesi ivi trasferitisi per lavoro, ritornato in Inghilterra a quattro anni dopo la morte del padre, dopo la morte della madre avvenuta nel 1904 fu allevato dal proprio tutore, il sacerdote oratoriano padre Francis Morgan.Studiò ad Oxford dove ottenne il titolo di baccellierato e di Master of Arts. Nello stesso prestigioso ateneo fu docente per oltre vent’anni di Lingua e letteratura anglosassone, collaborando all’Oxford English Dictionary. La sua fama mondiale è tuttavia legata, come si è detto, alle opere di fantasia ( o per meglio dire di epica fantastica e mitologica) che ebbero enorme successo: Lo Hobbit (1937), Il Signore degli Anelli, Il Silmarillion uscito postumo nel 1977 a cura del figlio Christopher dopo la sua morte avvenuta nel 1973.
Ci si è interrogati a lungo se dietro questo grande interesse per Tolkien -che come abbiamo accennato
non sembra esaurirsi- ci fosse una determinata ideologia. La risposta è sicuramente
negativa: risulta riduttiva qualsivoglia "etichettatura" del professore di Oxford, poiché ciò che ispirò e
che diede significato alla sua vita e alla sua opera non è riconducibile ad una ideologia, ma ad una
visione della vita, ad una concezione dell'essere, dell'uomo, della storia che è ben di più che una
ideologia: è una filosofia. Tolkien possiede addirittura quella che potremmo definire una visione
teologica della storia, attraverso la quale giudica, con l'autorevolezza di un filosofo o di un profeta, le
vicende umane e con esse le brutture e gli errori della modernità. Una lettura che non è ideologica ma,
al contrario, realistica; non nasce, cioè, da un idea di mondo, o da un progetto più o meno utopico su di
esso, ma dalla constatazione della natura e della condizione umana, segnata indelebilmente dalla
Caduta (in termini cristiani dal Peccato Originale), talchè il Nemico da battere è sì l'avversario malvagio
(come i personaggi del Signore degli Anelli Sauron o Saruman) ma è soprattutto il male che si annida
infido in ciascuno di noi.
Il ritorno al Bello e al Vero auspicato dallo scrittore di Oxford venne realizzato da lui attraverso il ricorso e il ritorno al Mito, per ridare sanità e santità all’uomo moderno.“Il mito è qualcosa di vivo nel suo insieme e in tutte le sue parti, e che muore prima di poter essere dissezionato”, disse Tolkien parlando ai suoi studenti di una delle sue opere preferite, il Beowulf.
Il mito è necessario perché la realtà è molto più grande della razionalità. Il mito è visione, è nostalgia
per l’eternità, come dice Clyde Kilby, studioso dell’opera tolkieniana.
Il mito non è metafora o allegoria, ma simbolo, ossia segno che rimanda ad un significato ultimo che
l’uomo deve riconoscere e interpretare. Il mito, nella storia dell’umanità, non è mai stato contrapposto,
come avviene oggi, alla realtà; il mito è sempre stato per sua stessa natura vero, espressione della verità
delle cose. Nel mito si veniva a contatto con qualcosa di vero che si era pienamente manifestato nella
storia, e questa manifestazione poteva fondare sia una struttura del reale che un comportamento
umano. Il mito è un mezzo per dare risposte a questioni fondamentali come l’origine dell’uomo, il bene,
il male, l’amore, la morte e per dare spiegazioni ai fenomeni della natura. Se il mito è il nesso, il legame
che l’uomo ha sempre cercato con il senso della vita, esso non può quindi che essere considerato
un’espressione naturale ed antichissima del senso religioso che vive nel cuore dell’uomo.
L'elemento religioso è radicato nelle storie di Tolkien e nel loro simbolismo. La sua stessa passione per il narrare nasce dal desiderio di comunicare la Verità, attraverso simboli e visioni. "Il Vangelo - spiegava- è la più grande Fiaba, e produce quella sensazione fondamentale: la gioia cristiana che provoca le lacrime perchè qualitativamente è simile al dolore, perchè proviene da quei luoghi dove gioia e dolore sono una cosa sola, riuniti, così come egoismo e altruismo si perdono nell'Amore".
In questa intensità epica e spirituale dell’opera di Tolkien sta il segreto della straordinaria attualità di questo autore di narrativa fantastica che si fa veicolo di valori immutabili, profondamente connaturati col cuore dell'uomo, i suoi sogni, le sue speranze. Il suo capolavoro, Il Signore degli Anelli, è il racconto epico di un periodo di transizione, che rappresenta un autentico manuale di sopravvivenza tra gli errori e gli orrori della Modernità. "Come può l'uomo giudicare che cosa deve fare in tempi come questi ? - chiede un personaggio del capolavoro tolkieniano, e gli risponde Aragorn, l'uomo destinato ad essere Re giusto: "Come ha sempre giudicato: il bene e il male non sono cambiati nel giro di un anno e non sono una cosa presso gli elfi e i nani e un'altra tra gli uomini. Tocca ad ognuno di noi discernerli".
Il Signore degli Anelli di Tolkien, ben lungi dunque dall’essere un semplice racconto per ragazzi o una storia fantasy di evasione, è il racconto intenso e affascinante di questa lotta iniziata agli albori dei tempi, scritta da un uomo dalla biografia apparentemente semplice e tranquilla che fu invece uno dei più grandi scrittori del Novecento, e che ridando dignità all’arte umana della subcreazione ci ha insegnato a ricercare la Bellezza e la Verità.
Occorre, soprattutto in quest'ultimo campo - secondo Tolkien - ripartire dalla realtà, dal suo vero significato, e sottoporla ad un processo di "sub-creazione".Nel marzo del 1939 egli tenne una conferenza sul tema delle storie fantastiche a St. Andrews, in Scozia. Il testo di questa straordinaria conversazione divenne poi un saggio, On Fairy Stories ( tradotto in italiano col titolo Sulle fiabe,pubblicato nel volume Albero e foglia). In esso egli rivendica questo ruolo della fantasia sub-creatrice come diritto umano: creiamo alla nostra misura e in modo derivativo in quanto siamo stati a nostra volta creati, e per di più ad immagine e somiglianza del Creatore.La fantasia è un mezzo di recupero della freschezza della visione della realtà, come rimedio all'ovvietà con cui trattiamo il vivere quotidiano. La fantasia - e quindi il racconto fantastico - ha per Tolkien una triplice funzione: ristoro, evasione, consolazione.
Il ristoro, ovvero il ritorno e il rinnovamento della salute, consiste per il Professore di Oxford nel ritrovare una visione chiara della realtà, nel "vedere le cose come siamo destinati a vederle". Tolkien stesso dichiarava di non voler rubare il mestiere ai filosofi esponendo queste sue tesi, preferendo la via chestertoniana dell'immaginario, del paradosso, dell'immagine velata, allo scopo di liberarci dai vari orpelli che, nella vita ordinaria, mascherano il volto della verità.
Il paradosso (affidare un'immane impresa, quale nemmeno maghi e cavalieri sentono di assumersi, ai piccoli e fragili hobbit) e la follia (rifiutare le seduzioni del potere e del piacere per percorrere una via di sacrificio e rinuncia, contro ogni apparente logica razionale) sono le caratteristiche dunque della fantasia guaritrice, ristoratrice, che consente l'evasione dal carcere di un'esistenza condotta tra formalismi, convenzioni, condizionamenti e menzogne. Per quanto riguarda poi la terza finalità del racconto fantastico, anche qui Tolkien porta profondi cambiamenti in quella concezione permeante ormai da tempo la narrativa realistica così come il genere avventuroso, caratterizzata dalla mancanza di finalità, dalla casualità degli eventi e dall'assenza di un elemento di giustizia, quindi di moralità, nella storia. Diceva Chesterton a proposito della finalità dei racconti, e lo stesso Tolkien lo riprende nei suoi scritti, che i bambini sono innocenti e amano la giustizia, mentre la maggior parte di noi è malvagia e naturalmente preferisce il perdono. Per questo i primi - e con loro tutti coloro che hanno un cuore puro da bambino - amano che le storie si concludano con un "lieto fine". A tale proposito, Tolkien introduce il concetto di "eucatastrofe": il racconto eucatastrofico, contenente cioè un giudizio morale sugli avvenimenti e una conclusione appropriata, è la vera forma di fiaba e ne costituisce la suprema funzione. Quando in un racconto fantastico abbiamo a trovare un "capovolgimento", un'interruzione del corso negativo degli eventi, un ribaltamento dell'inesorabile, opprimente realtà, abbiamo anche una stupefacente visione della gioia, dell'aspirazione del cuore che per un istante travalica i limiti del racconto, lacera la ragnatela della vicenda, permette che un bagliore la trapassi. "Gioia acuta come un dolore" dice Tolkien, presente nonostante le sconfitte e i fallimenti, poichè smentisce l'universale sconfitta finale, a dispetto delle molte apparenze contrarie evidenti nel tempo presente.La gioia conserva una traccia di quella strana qualità mitica della fiaba di cui si è detto in precedenza.E' certamente questa triplice funzione della fiaba e del racconto fantastico, che sempre si ritrova pienamente rispettata in ogni opera tolkieniana - al punto da far indispettire qualche critico, che trova irritante questa ricomposizione dei vari pezzi del mosaico delle varie storie, riconducenti sempre ad un significato, ad un fine che non è sempre apparentemente lieto ma è comunque propedeutico per i singoli personaggi coinvolti o per l'esito della vicenda - a conferire a Tolkien una assoluta originalità sia rispetto all'atmosfera e alle trame delle saghe antiche, che pur tanto amava e tanto profondamente conosceva, ma anche rispetto agli altri autori di narrativa fantasy.
La gioia che Tolkien ha posto a segno del vero racconto fantastico merita una più attenta considerazione; l’”eucatastrofe”, che è ben più del cosiddetto “lieto fine” delle fiabe tradizionali, rappresenta un lontano barlume, un’eco dell’Evangelium nel mondo reale. Nel saggio sui racconti fantastici Tolkien scriveva: “ Mi azzarderei ad affermare che, accostandomi alla Vicenda Cristiana sotto questa angolazione, a lungo ho avuto la sensazione (una sensazione gioiosa) che Dio abbia redento le corrotte creature produttrici, gli uomini, in maniera adatta a questo come pure ad altri aspetti della loro singolare natura. I Vangeli contengono una favola o meglio una vicenda di un genere più ampio che include l’intera essenza delle fiabe. I Vangeli contengono molte meraviglie, di un’artisticità particolare, belle e commoventi, “mitiche” nel loro significato perfetto, in sé conchiuso: e tra le meraviglie c’è l’eucatastrofe massima e più completa che si possa concepire. Solo che questa vicenda ha penetrato di sé la Storia e il mondo primario; il desiderio e l’anelito alla subcreazione sono stati elevati al compimento della Creazione. La nascita del Cristo è l’eucatastrofe della storia dell’Uomo; la Resurrezione, l’eucatastrofe della storia dell’Incarnazione. Questa vicenda si inizia e si conclude in gioia, e mostra in maniera inequivocabile la “intima consistenza della realtà”. Non c’è racconto mai narrato che gli uomini possano trovare più vero di questo, e nessun racconto che tanti scettici abbiano accettato come vero per i suoi propri meriti. Perché l’Arte di esso ha il tono, supremamente convincente, dell’Arte Primaria, vale a dire della Creazione. E rifiutarla porta o alla tristezza o all’iracondia.” Tolkien ci introduce al significato della gioia cristiana, il cui nome è Gloria: “L’arte ha avuto la verifica. Dio è il Signore degli angeli, degli uomini – e degli elfi. Leggenda e Storia si sono incontrate e fuse”. Il Vangelo non ha abrogato le leggende, dice il professore di Oxford, ma le ha santificate. “Il cristiano deve ancora operare, con la mente come con il corpo, soffrire, sperare, morire; ma ora può rendersi conto che tutte le sue inclinazioni e facoltà hanno uno scopo, il quale può essere redento. Tanto grande è la liberalità onde è stato fatto oggetto, che ora può forse permettersi a ragion veduta di ritenere che con la Fantasia può assistere effettivamente al dispiegarsi e al molteplice arricchimento della creazione. Tutte le narrazioni si possono avverare; pure alla fine, redente, possono risultare non meno simili e insieme dissimili dalle forme da noi date loro, di quanto l’Uomo, finalmente redento, sarà simile e dissimile, insieme, all’uomo caduto a noi noto”.
Si deve parlare quindi di Tolkien come scrittore religioso, dunque, e più precisamente si può rintracciare la fonte della sua visione religiosa nella fede cattolica intensamente vissuta. Tolkien era stato ricevuto nella Chiesa di Roma a nove anni, dopo la conversione della madre. La Chiesa cattolica in Inghilterra all’inizio del ‘900 era una comunità povera, composta in gran parte di immigrati irlandesi, con alle spalle tre secoli di persecuzioni. La città di Birmingham, dove la famiglia Tolkien viveva, era stata tuttavia illuminata in quegli anni dalla presenza di quel grande genio cristiano che fu John Henry Newman. Il volto magro e solcato di rughe profonde in cui splendevano due occhi intrisi di ideale scrutarono per anni in quella difficile Inghilterra. Elevato alla porpora cardinalizia da Leone XIII alla soglia degli ottant’anni, nominato Fellow onorario del Trinity College di Oxford (era dai tempi della Riforma, tre secoli prima, che un tale riconoscimento del massimo istituto accademico inglese non veniva più dato ad un cattolico) si spense a Birmingham nel 1890, mentre i Tolkien si trasferivano in Sudafrica. Sicuramente Mabel ebbe a respirare quel clima spirituale che Newman aveva diffuso. Sulla sua tomba il grande convertito aveva voluto che fossero incise queste parole: Ex umbris et imaginibus ad veritatem. Andiamo verso la verità passando attraverso ombre e immagini. Per John Ronald Tolkien, che amò subito appassionatamente la fede cui sua madre lo aveva condotto, l’arte fu per tutta la vita questa ricerca della verità tra quelle ombre, quelle immagini che sono i miti, i simboli, le lingue arcaiche parlate dalle generazioni scomparse, le antiche storie di tempi trascorsi e lontani. Il bambino di otto anni trovò nella fede cattolica una nuova e fondamentale pietra miliare della sua vita: una fede che non era solo sostegno e conforto per il presente e speranza per il futuro, ma era anche il luogo dove poteva rintracciare- cosa per lui importantissima- un passato, un terreno da cui traeva nutrimento vitale l’albero della storia, della sua storia. Il bambino che non aveva più un padre e nemmeno dei parenti trovò accoglienza in una Chiesa che era la chiesa dei suoi padri, dei suoi antenati. Questa consapevolezza, questo amore per le proprie antiche radici religiose si manifestò in seguito nell’interesse e nell’amore per il Medioevo, quando l’Inghilterra era cattolica, quando l’intero continente europeo conosceva ancora una unità culturale e spirituale in seguito mai più sperimentata. Da ciò derivò anche quella disapprovazione per il cosiddetto “progresso”, nel nome del quale, dalla Riforma in poi, tanti mali erano venuti. Il prezzo della conversione era stato per i Tolkien la condizione di miseria che ne seguì, e chi ne fece le spese fu Mabel. Nel 1904 fu ricoverata in ospedale , dove le fu riscontrata una grave forma di diabete che nel breve tempo di pochi mesi le fu fatale. Le era impossibile pagarsi le costose cure, e nessuno dei parenti fu disposto ad aiutarla. Cercò di non fare mancare nulla ai propri figli in quel periodo, e fece in modo che non avessero ad accorgersi delle sue condizioni.Nel novembre 1904 Mabel peggiorò rapidamente, entrando in coma diabetico e morendo, il 14 novembre, dopo sei giorni di agonia. “Mia madre è stata veramente una martire,- scrisse Ronald nove anni dopo_ non a tutti Gesù concede di percorrere una strada così facile, per arrivare ai suoi grandi doni, come ha concesso a Hilary e a me, dandoci una madre che si uccise con la fatica e le preoccupazioni per assicurarsi che noi crescessimo nella fede”.
Attraverso ombre e immagini Tolkien indirizzò la sua vita e la sua opera verso la Verità.
Nel ventesimo secolo l'Altrove del mito letterario si è avventurato spesso e volentieri sul terreno
dell'utopia, preferendo tuttavia viaggiare nello spazio e nel tempo, aprendo l'immaginazione su nuovi
mondi e nuove frontiere, frequentemente prefigurando scenari decisamente inquietanti. John Ronald
Tolkien rifiuta invece ogni idea di utopia; la sua, semmai, è una storia ucronica, situata cioè in un
tempo non identificabile. Il luogo - lo si è detto - è invece questa terra, la sola che ci sia data, e che dobbiamo amare . La saggezza di Tolkien è affidata alle parole di Gandalf, nella conclusione del
Signore degli Anelli, ove dice:" Altri mali potranno sopraggiungere, perchè Sauron stesso non è che un
servo o un emissario. Ma non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo, il nostro compito è di fare
il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo,
al fine di lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare. Ma il tempo che avranno
non dipende da noi". E' questo il manifesto dell'umano realismo, profondamente cristiano, opposto agli
incubi di tutte le utopie, con le loro promesse ingannatrici e illusorie. Aveva ben ragione Tolkien di
difendersi dalle accuse di "escapismo", cioè di disimpegno, rivolte – del tutto a torto- alla sua opera.
Non è, il mondo descritto nella Terra di Mezzo, quello in cui fuggire disertando dai propri obblighi e
dai propri impegni, ma è invece la propria patria autentica, la propria casa accogliente, attualmente
soppiantata e soffocata dai pessimi risultati della modernità figlia delle utopie ideologiche. E' il mondo,
come ebbe a dire lo stesso Tolkien, della coraggiosa evasione del prigioniero, non della fuga pavida del
disertore. Si accede alla Terra di Mezzo, ci si inoltra in essa, per realizzare un cammino attraverso il
quale si diviene autenticamente sé stessi, eliminando il superfluo e facendo emergere la nobilis forma,
la forma nobile dell'uomo, liberata da ogni grossolanità e impurità, che può così rivelare la propria origine divina.
Tolkien rivela nitidamente una propria teologia della storia, che riprende la concezione agostiniana
delle due città: la Città terrena, opera degli uomini in cui agisce il male, e la Città di Dio, meta verso la
quale indirizzare attese, sforzi e speranze. E' da sottolineare che S.Agostino si trovò a vivere al confine
tra il crepuscolo di un mondo antico un tempo grandioso e l'alba di una nuova era dai contorni ancora
incerti, e insegnò che la storia è guidata dalla Provvidenza e che quindi ogni avvenimento - dalla
piccola vicenda personale alle grandi svolte dell'umanità - possiede un significato che dissipa l'oscurità
e sorregge le forze dell'uomo. Le rovine, i numerosi segni di civiltà cresciute, ascese a grandezza e poi
irrimediabilmente finite e dimenticate costellano ovunque la Terra di Mezzo scenario delle vicende
tolkieniane, ricordandoci la caducità della Città terrena.
Tolkien guardò sempre all'arte come ad una nobile forma di sub-creazione, una prerogativa elevata ed
elevante, poichè si tratta di realizzare opere nell'immagine di Dio e della sua creazione. Gli elfi
sembrano essere preposti a ricordare agli uomini la bellezza del creato, il dono incorrotto di Dio. Essi
sono testimoni discreti dell'importanza dell'arte, della cultura, di una civiltà elevata e virtuosa rispetto
alla barbarie selvatica, compresa quella paludata di ritrovati tecnologici. Gli elfi ricordano agli uomini
quello che anch'essi potrebbero essere, se si liberassero dalle loro passioni più insane e rovinose: l'elfo è
essenzialmente un contemplativo, diverso dall'uomo attivo e frenetico che cerca di manipolare la
natura per servirsene.
La Grazia che traspare da tutta l’opera di Tolkien, che ci viene rivelata attraverso il linguaggio
simbolico del Mito è dunque questo dono dello Spirito Santo che è necessario all’uomo per ottenere la
salvezza; essa sana e perfeziona la natura umana ferita e limitata dal peccato. E’ la Grazia lo
straordinario segreto degli eroi di Tolkien, così come, secondo Chesterton, la gioia è il gigantesco
segreto del cristianesimo. La Grazia della fede cristiana che completa e dà speranza allo stoico eroismo
pagano, di cui Tolkien aveva scritto nel suo commento al Beowulf: “Stimiamo in ogni modo gli antichi
eroi: uomini prigionieri delle catene di circostanze o della loro propria indole,lacerati dal conflitto di
doveri egualmente sacri, che muoiono con le spalle al muro”.
La risposta, sembra insegnarci Tolkien, consiste nel ricordare, nel fare memoria, così come il cristiano
ricorda e rivive ogni giorno nell'Eucaristia un avvenimento ben preciso: la morte e la Resurrezione di
Cristo. Tolkien paventa, di fronte all'avanzata distruttrice della modernità tecnologica e irreligiosa, la
scomparsa della memoria, della Tradizione, e l'avvento di tempi di aridità, di materialismo, di
menzogna. Si potrebbe pensare che lo scrittore inglese esprimesse una concezione decisamente
pessimistica, se non addirittura catastrofica, mentre in realtà, come abbiamo letto nelle parole che egli
nella conclusione del Signore degli Anelli fa pronunciare a Gandalf, il suo è semplicemente realismo
cristiano, consapevole delle prove che siamo chiamati a sostenere ma anche certo della vittoria finale
che spetta a Dio. “ La tragedia della grande disfatta nel Tempo resta pungente per un po’, ma cessa di
essere alla fin fine importante. Non è una disfatta, perché la fine del mondo è parte del disegno dl
Creatore, l’Arbitro che sta al di sopra del mondo mortale. Dietro, appare la possibilità di una vittoria
eterna (o di una eterna sconfitta), e la vera battaglia è fra l’anima e i suoi avversari. Così, i vecchi mostri
divennero immagini dello spirito o degli spiriti del male, o piuttosto gli spiriti malvagi entrarono nei
mostri e presero forma visibile nei corpi orrendi dell’immaginazione pagana”. Così, alla fine, questo è
il destino dell’uomo viator, che in questo mondo è solo un pellegrino in cammino, uno straniero che ha
la sua patria autentica altrove: “ L’uomo straniero in un mondo ostile, impegnato in una lotta che non
può vincere sinchè il mondo durerà, viene assicurato che i suoi nemici sono anche i nemici del Signore,
e che il suo coraggio, in se stesso nobile, è anche la più alta lealtà”.