CENTRO STUDI ORIENTE OCCIDENTE

CONVEGNO - ANCONA, 23/24/25 OTTOBRE 2003

REALTA' E CONTRAFFAZIONI DEL SACRO
Discernimento, Trappole e Travisamenti Lungo i Percorsi dell’Attualita’ Socio-Religiosa

DIO NELLA RETE
Antonio Spadaro S.I. 
«La Civiltà Cattolica»

N.B. Quelle che seguono sono semplicemente note scritte finalizzate alla presentazione orale del tema nei tempi stabiliti. Mancano quindi note e citazioni dirette, d’obbligo in un lavoro a stampa.

Cos’è la Terra?
Un pianeta, senza dubbio. Ma il documento «Etica in Internet» (Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, 22/2/2002) risponde alla domanda con una immagine decisamente interessante: la Terra è «un globo ronzante di trasmissioni elettroniche, un pianeta blaterante, annidato nel silenzio dello spazio» (n. 1).
E subito dopo pone una domanda tremenda: «In conseguenza di ciò, le persone sono più felici e migliori?».
Lasciamo questa domanda a decantare. In questa conferenza, del resto, la domanda di partenza non è se siete felici o meno. Ma occupiamoci decisamente dell’immagine appena citata.

Che cos’è internet?

Internet è una rete di interconnessione tra computer collegati tra loro mediante linee telefoniche resa possibile attraverso l'adozione di un medesimo sistema («protocollo») di comunicazione.
Se un computer entra nella «Rete» può essere connesso in modo interattivo e veloce a qualunque altro computer collegato e in qualunque angolo della terra si trovi. Internet è così di un sistema di comunicazione a «ragnatela» (in inglese web, metafora usata per indicare l'intera Rete): globale e ubiquo. Costruendo un «sito» in questa rete, cioè, in altri termini, ponendo in uno di questi computer testi, immagini, suoni e dunque informazioni di tipo testuale o multimediale, è possibile renderli accessibili in modo rapido e in qualunque momento da qualsiasi utente connesso. Pubblicare in rete oggi è abbastanza semplice grazie a programmi di utilizzo intuitivo ed è facile ottenere spazio a disposizione, anche gratuitamente, su grossi computer (Server) costantemente on line. Internet è dunque anche un mezzo di comunicazione sufficientemente economico, almeno rispetto ad altri sistemi. Chiunque da casa propria può immettere in rete informazioni che possono a loro volta essere attinte da chiunque abbia a disposizione una connessione alla Rete.

Qualcuno parla anche di un «diluvio universale delle informazioni». «Google», uno trai migliori motori di ricerca della Rete, ha indicizzato al momento 3 miliardi e 300 milioni di pagine Web. La Rete si muove e si evolve «biologicamente» come un organismo: non esiste un controllo supremo. Essa si autorganizza e si espande al di là di ogni forma di strutturazione gerarchica o di selezione previa di contenuti.

L'integrazione tra informatica e telecomunicazione ha provocato una vera e propria «irruzione
della telematica» e Internet oggi si rivela come un «oceano» di informazioni da riempire e da solcare. La metafora della navigazione è quella che rende meglio il movimento al suo interno.

La presenza del «religioso»

Navigando nella «Grande Rete» (World Wide Web), è facile accorgersi della presenza al suo interno di elementi legati al sacro e alla religione. God in cyberspace ha titolato un noto mensile inglese di teologia. Digitando la parola God, cioè Dio nella lingua principale del web, l’inglese, in un «motore di ricerca» o religion, Christ, spirituality, otteniamo liste di decine di milioni di pagine trovate.

La domanda che a questo punto ci poniamo è la seguente: è possibile capire che cosa di religioso esiste in Rete? La risposta è affermativa: si possono consultare utilmente sia volumi che realizzano una sorta di censimento organizzato, sia motori di ricerca tematici, sia infine siti costruiti appositamente o studi già presenti in Rete.

Qui dunque non mi occuperò di tale catalogazione. Ma la domanda che resta aperta riguarda il come sacro e religioso siano presenti. In altri termini, è possibile costruire una, seppur provvisoria e discutibile, fenomenologia del religioso in internet?

Tenterò di rispondere a questa domanda, facendo una proposta di descrizione e analisi attraverso esempi del fenomeno, che in sé si presenta come «inclassificabile» proprio perché in costante mutamento.

Le vetrine in Rete di realtà religiose attuali Aperture in Rete di realtà attuali
Realtà religiose che esistono solo in Rete
Realtà metaforiche di luoghi religiosi tradizionali

Le vetrine di realtà religiose attuali
In Rete troviamo innanzitutto «vetrine» di realtà religiose reali. Si contano nel solo contesto cattolico italiano circa 8.000 di queste vetrine, comprendenti anche circa 1650 parrocchie, 1500 movimenti e associazioni, 800 ordini religiosi.
La Santa Sede ha un sito che, oltre a contenere le pagine web di tutti i dicasteri della Curia Romana, propone materiali e documenti anche in originale (dal Concordato di Worms del 1122 in scansione fotografica ai documenti più recenti).
Ricordiamo poi il sito della Conferenza Episcopale Italiana, che contiene al momento ben oltre 10.000 documenti.
Ricordiamo che anche molti ordini e congregazioni religiose hanno siti a vario livello (da quelli delle Curie generalizie a quelli delle singole province o case) e così gruppi, movimenti e associazioni.
Molte religioni mondiali, da quelle più praticate a quelle meno note, hanno siti o portali che contengono notizie, testi sacri e altro. Proliferano anche le sètte e i culti di ogni genere.

Aperture in Rete di realtà attuali
Esistono però anche realtà concrete che aprono uno spazio puramente «virtuale» in rete. E’ possibile, ad esempio, che un’istituzione formativa apra una «classe virtuale» di catechesi. Accade sempre più spesso, anche e soprattutto nel mondo non religioso, che le persone debbano essere formate a distanza per problemi logistici e di tempo, e così comincia a non essere infrequente che gruppi e realtà ecclesiali si incontrino in spazi virtuali quali forum, liste di posta elettronica, chat o virtual room dedicate, in modo da poter creare situazioni più agevoli e continue di incontro.
Nessuno si dà appuntamento in una sala «reale», ma tutti sono in contatto, e spesso contemporaneamente, in maniera virtuale.
Esistono inoltre attività virtuali di istutuzioni accedemiche (come l’Università Cattolica o le varie Università, Atenei o Facoltà Pontificie) come anche le loro biblioteche consultabili a distanza, da casa, come se si fosse in sala di consultazione. La rete URBE (Unione Romana Biblioteche Ecclesiastiche), ad esempio, riunisce le biblioteche di 8 centri accademici e di 16 altre istituzioni.

Realtà religiose che esistono solo in Rete
Visto che la Rete permette l’esistenza di realtà non materiali, occorre riconoscere che in essa possono nascere e proliferare molte realtà religiose unicamente virtuali, che cioè non hanno un referente in luoghi, istituzioni e gruppi che si incontrano in forma reale. Il fatto che la Rete non abbia limiti o censure ideologiche permette infatti la diffusione di qualunque idea o credo a costi praticamente nulli. Notiamo inoltre alcune realtà virtuali che rispecchiano l’esistente senza divenire puramente una sua interfaccia web.

Un esempio estremamente interessante è il sito Vidimusdominum dei giovani membri di ordini e congregazioni religiose, il quale dà forma virtuale a una comunità che non ha dimensione «reale» e visibile in quanto tale.
E’ stata ideata persino almeno una forma di vita religiosa non ufficiale che ha consistenza unicamente virtuale come l’OMFSI (Ordre monastique des frères et soeurs par l’internet).

Esistono gruppi di preghiera virtuali, spontanei o legati a monasteri o ad altre istituzioni. Esistono anche biblioteche esclusivamente virtuali, che hanno «sede» cioè soltanto in internet e che contengono testi unicamente digitali scaricabili sul proprio computer.

Realtà metaforiche di luoghi religiosi tradizionali

Nella Rete esistono metafore di luoghi tradizionali che hanno a che fare con il sacro e il religioso. Troviamo infatti cyber-cimiteri, dove si possono lasciare messaggi o accendere lumini virtuali, ma anche cyber-cappelle dove sostare a pregare. Esistono forme di cyber-celebrazioni per le quali si è parlato anche di una sorta di computer-altare (come, del resto, si era parlato anni fa di televisore- altare) o addirittura di «telepresenza reale». Esistono cyber-case di esercizi spirituali e, in questo caso, il computer diventa una sorta di spazio di preghiera virtuale, dove sono forniti spunti di meditazione da utilizzare in tempi adeguati della giornata. Infine è da ricordare l’esistenza di un cyber-presbiterio italiano.

Il bisogno di Dio e cyber-spiritualità

Nella Rete si nota, insieme a un’interessante evoluzione delle competenze tecniche, una crescita di bisogni religiosi che la «tradizione» riesce a fatica a soddisfare. Alcune statistiche affermano, ad esempio, che il 25% degli internauti americani usa la Rete almeno una volta alla settimana per rispondere a interrogativi religiosi.

L’uomo alla ricerca di Dio oggi si pone anche di fronte a uno schermo e avvia una navigazione. Un’osservazione attenta su questo fatto mostra come nel «navigare» lo sguardo che è alla ricerca è manipolato e orientato dal tatto: si naviga col mouse che si muove con la mano e dunque è quest’ultima a guidare lo sguardo. La conoscenza, che passa dal visivo al tattile (per poter cercare, trovare e vedere occorre toccare) e la dimensione interattiva quali effetti avranno sull’esperienza del sacro?

La logica dell’«apparizione», non è senza conseguenze in un contesto di self service dell’anima. In tal modo ci si illude che il sacro o il religioso sia «a portata di mouse»: basta un click per passare da un sito di neo-stregoneria a quello di un’apparizione mariana, oppure da un tempio neo-pagano a un sito di cristiani tradizionalisti.

La Rete, può contenere di tutto e dunque facilmente può essere paragonata a una sorta di grande supermarket del religioso (che è dunque «mercato», con tutte le conseguenze di tipo economico del caso: promozione e vendita di oggetti, diete, servizi di culto, musica, gadget, immagini, consulenze e truffe di vario genere), in cui è possibile trovare ogni genere di «prodotto» religioso con grande facilità: dalle riflessioni più serie e valide alle religioni che una persona annoiata si inventa per gioco e ai nuovi «messia». Ciascuno può attingere dalla Rete non secondo reali esigenze spirituali, ma secondo bisogni da soddisfare.

Il primo bisogno sembra essere il «benessere spirituale», al di là delle domande sui valori o sui significati profondi della vita. Alcuni siti religiosi che si rifanno a precise tradizioni spirituali più solide sembrano, talvolta, essere «contaminati», diciamo così, da queste esigenze: può accadere di imbattersi in siti con angioletti ammiccanti, iconcine mielose e sfavillanti, lumini, stelline, lucette, musichette e così via. Il kitsch religioso dice un bisogno di intimismo, di consolazione a metà tra videogioco e pietà popolare.

Ci si illude dunque che il sacro resti «a disposizione» di un «consumatore» nel momento del bisogno. Il cristiano, in realtà, non è mai un «consumatore di servizi religiosi», e il cristianesimo si autocomprende come portatore di un messaggio, quello della morte e resurrezione di Cristo, resistente alle assimilazioni e «scandaloso». Una presenza cristiana in Rete deve far leva dunque su questa resistenza, sul fatto che la parola del Vangelo scuote, non serve a «far star bene» e, al contrario, rischia sul serio di mettere in crisi le coscienze, cioè di «far star male», se mi è permessa l’espressione. Una strada da affrontare, ad esempio, è quella della reticenza e del rinvio silenzioso, in un «mercato» già saturo di messaggi.

Per comprendere il pericolo dell’omogeneizzazione religiosa sono da visitare siti come Beliefnet, dove le religioni sono messe in mostra, una al pari dell’altra, in un cocktail religioso spesso disarmante.

Ma internet è anche incubatrice di nuove forme di religiosità che considerano la Rete come uno «spazio sacro». La vita spirituale viene trasferita alla virtualità digitale condivisa in un network globale che genera un «cervello globale embrionale» o, addirittura la «realtà del regno spiritualedell’Universo Fluido della Forma senza Forma, il regno del pensiero, dell’intelletto, dell’immaginazione, il flusso della mente globale», come si legge, ad esempio, in un messaggio elettronico.

In effetti la scena mediatica non è una «rappresentazione» o una mimesi della realtà, del mondo. Il cyberspazio, l’ambiente virtuale elettronico, è un mondo sì immateriale, ma un vero e proprio «mondo». Il navigante è coinvolto in una pratica concreta, non sta utilizzando solo un sistema di rappresentazione astratto. La realtà è virtuale non nel senso che non è reale, ma nel fatto che è reale nella sua esecuzione. Sta emergendo dunque una «spiritualità» che fa riferimento a questo «mondo» e che ha i tratti dell’esperienza multimediale e iper-testuale. Si tratta della spiritualità delle cosidette «cybereligioni» o «religioni di rete», quali il neopaganesimo, il tecnopaganesimo, il tecnosciamanesimo, il tecnobuddhismo, i culti ecologici tecno-spirituali. E tuttavia, proprio attraversando questi siti e gli strumenti che essi mettono a disposizione, è anche possibile farsi un’idea del bisogno profondo di Dio che agita il cuore umano, seppure vissuto in maniera spesso alienante e distorta.

La Rete dunque è spazio di discernimento e di missione: evaderla significherebbe venir meno a una sfida impegnativa e importante.

La Rete e la pastorale

Le nuove tecnologie informatiche e telematiche sono entrate anche nel grande campo della pastorale e dello studio sulle nuove possibilità per il ministero.
Tuttavia la pastorale deve confrontarsi con la Rete, non solo come mero «strumento» di evangelizzazione, ma innanzitutto come fatto, anzi come «ambiente» culturale e educativo, che determina uno stile di pensiero e crea nuovi territori e nuove forme di educazione, contribuendo a definire anche un modo nuovo di stimolare le intelligenze e di costruire la conoscenza e le relazioni.

L’uomo infatti non resta immutato dal modo con cui manipola il mondo: a trasformarsi non sono solo i mezzi di comunicazione, ma l’uomo stesso e la sua cultura.

L’impegno nei mass media così «non ha solo lo scopo di moltiplicare l’annunzio: si tratta di un fatto più profondo, perché l’evangelizzazione stessa della cultura moderna dipende in gran parte dal loro influsso. Non basta, quindi, usarli per diffondere il messaggio cristiano e il magistero della chiesa, ma occorre integrare il messaggio stesso in questa “nuova cultura” creata dalla comunicazione moderna. È un problema complesso, poiché questa cultura nasce, prima ancora che dai contenuti, dal fatto stesso che esistono nuovi modi di comunicare con nuovi linguaggi, nuove tecniche e nuovi atteggiamenti psicologici» (Redemptoris missio, n. 37).

Dunque, in questo senso, la stessa esperienza pastorale può ridefinirsi in un clima che è certamente nuovo non solo perché sono nuovi gli strumenti, ma perché essi si accompagnano anche ad una novità culturale e relazionale. Il documento «La Chiesa e internet» esplicita chiaramente inoltre il fatto che non solo i media influenzano fortemente ciò che le persone pensano della vita, ma che «l’esperienza umana in quanto tale è diventata una esperienza mediatica» (cit. di Aetatis novae n. 2 in CI n. 4). La pastorale è obbligata a fare i conti con questa forma di esperienza. Infatti afferma seccamente il documento: «Poiché annunciare la Buona Novella a persone immerse nella cultura dei mezzi di comunicazione sociale richiede l’attenta considerazione delle peculiarità dei mezzi di comunicazione stessi, ora la Chiesa ha bisogno di comprendere Internet» (n. 5)

La Rete e il dialogo spirituale
Fare pastorale in rete significa anche entrare in relazione con altre persone. La Rete rende possibile il contatto con e tra gente in ricerca o con e tra fedeli di religioni differenti o, purtroppo, con adepti di sètte (anche sataniche) o simpatizzanti di spiritualità di stile new age o simili.
Occorre dunque comprendere bene la tipologia di rapporto che si crea in Rete che è ricco di elementi contraddittori.

La relazione in Rete è per sé molto anonima e impersonale, in quanto ciascuno può far credere di essere ciò che non è a livello di età, sesso e professione, esprimendosi senza i limiti dati dalla propria identità pubblica. In Rete si diventa messaggio. Insomma si dialoga per quel che ci si sente di essere e per il «pensiero puro», diciamo così, che si esprime.

Proprio per questo dunque, è anche molto confidenziale, perché permette di dire di sé cose che altrimenti difficilmente una persona direbbe nei suoi panni quotidiani. Si può avere un’apertura completa e un grande livello di autenticità, ma d’altra parte si può cadere anche nello spontaneismo senza limiti e senza pudori. Il cyberspazio comunque è un «luogo» emotivamente caldo e non algidamente tecnologico, come qualcuno sarebbe tentato di immaginare.

Il rapporto in Rete dunque può essere anonimo, ma anche estremamente «vero». Esso tuttavia può anche essere inteso, da chi lo vive, come molto volatile e non impegnativo, perché il legame che si crea con l’altra persona è del tutto immateriale. Basta disconnettersi o chiudere il programma per chiudere la relazione.

La relazione spirituale in Rete richiede dunque una certa familiarità con l’ambiente virtuale in cui ci si trova. Al di là dell’uso più semplice per la comunicazione rapida di informazioni, essa va comunque considerata come un’opportunità da cogliere con spirito di fiducia e, insieme, di attento discernimento nella direzione di rapporti «veri».

La Rete e il dialogo teologico

Se la Rete è luogo di dialogo, essa certamente può aprire spazi, prima inesistenti, anche al dialogo interreligioso e teologico.
Il compito primo della teologia è l’articolazione critica e la mediazione del sapere della fede. Questa mediazione si realizza sempre in un contesto di pensiero, di linguaggio, di immagini, di cultura e dunque di «comunicazione».

1. La Rete realizza una mutazione nel modo di vivere le istanze di comunicazione e di comunione. Pensiamo alla comunicazione costante tra persone che lavorano a una stessa idea e che però abitano in varie parti del mondo e non si conoscono personalmente. Esse realizzano tra loro, se entrano in relazione forte, una sorta di «coscienza comune». Ciò certamente ha ricadute in ambito teologico, tanto più se la comunicazione avviene tra persone che per cultura e formazione usano metafore, immagini e linguaggi differenti per dire Dio e la fede. Esistono numerosi siti, forum e mailing list di teologia, al cui interno è possibile un dialogo in altro modo estremamente difficoltoso.

2. D’altra parte questo dialogo si realizza in un ambiente, internet appunto, la cui logica non è sequenziale-argomentativa, ma ipertestuale: nella Rete si procede non una pagina dopo l’altra, ma passando, attraverso parole chiave e collegamenti da un luogo virtuale a un altro, da un sito a un altro. Ciò sviluppa maggiormente la capacità intuitiva e di immaginazione.

3. La conoscenza non prevede più un «centro» da cui si deducono dei raggi, ma tutto può essere centro e dappertutto si può raggiungere qualunque luogo. Il sapere è non-gerarchico e frammentato e non c’è differenza tra interno ed esterno.

Quali effetti avrà tutto ciò sulla conoscenza e la comunicazione teologica? Si tratta di una domanda che impegna la teologia su vari piani.

Il primo livello è certamente quello dello studio che usa teorie, modelli, metodi della scienza delle comunicazioni in grado di aiutare la propria riflessione sulla fede e quello del modo di comunicare la teologia. Un modello di teologia della Rivelazione di tipo «verbale», che inquadra l’uomo come «uditore della Parola» o, se vogliamo, il modello della parabola puntata al cielo o quello dell’uomo-radar rischiano, infatti, di non essere così esplicativi come lo erano in passato. Se una volta l’uomo era visualizzabile come un essere alla ricerca di una risposta sulla sua vita, adesso è più inquadrabile come una persona in atteggiamento di scelta, selezione, discernimento sulla risposta più adatta e soddisfacente. Deve insomma imparare sia a cercare sia a trovare.

Inoltre è da affrontare il livello dello studio teologico sistematico sul fenomeno della comunicazione in Rete: le categorie teologiche possono essere applicate alla comunicazione sia in termini di maggiore comprensione del fenomeno (Teologia della comunicazione) sia in termini di valutazione etica (Teologia morale della comunicazione).

La Rete dunque nei confronti della teologia offre opportunità e, insieme, lancia sfide di ordine sia metodologico sia speculativo.

Internet ed ecclesiologia

Un ulteriore interrogativo posto alla Chiesa di oggi riguarda la comprensione che la Chiesa ha di sè. La Rete pone domande che riguardano la mentalità e il modello con cui può essere compresa la Chiesa nel suo essere «comunità» e nel suo sviluppo.
La Lumen gentium al n. 6, parlando dell’intima natura della Chiesa, afferma che essa si fa conoscere attraverso «immagini varie». Nel passato, oltre a quelle bibliche, sono state usate anche immagini di altro genere per «significare» la Chiesa; ad esempio, le metafore navali e di navigazione. Alcune immagini infatti possono anche essere «modelli» ecclesiologici e per «modello» si intende un’immagine impiegata in modo riflesso e critico per approfondire la comprensione della realtà. La domanda a questo punto è se oggi non si ponga la necessità di confrontarsi seriamente con la figura della «Rete» e con ciò che da essa deriva a livello di comprensione ecclesiologica. È possibile pensare a internet come a una metafora per comprendere la Chiesa, naturalmente senza credere che essa possa esser esaustiva?

Certamente la relazionalità della Rete funziona se i collegamenti (link) sono sempre attivi: qualora un nodo o un collegamento fosse interrotto, l’informazione non passerebbe e la relazione sarebbe impossibile. La reticolarità della vite nei cui tralci scorre una medesima linfa non è distante dall’immagine di internet, tutto sommato. Da ciò si intende che la Rete è immagine della Chiesa nella misura in cui la si intende come un corpo che è vivo se tutte le relazioni al suo interno sono vitali. Poi l’universalità della Chiesa e la missione dell’annuncio «a tutte le genti» rafforzano la percezione che la Rete possa essere un buon modello di valore ecclesiologico.

Questo modello, però, rischia di avere una ricaduta negativa sul significato dell’«appartenenza» ecclesiale. Essa sarebbe frutto di un «consenso» e dunque «prodotto» della comunicazione. In questo contesto i passi dell’iniziazione cristiana rischiano di risolversi in una sorta di «procedura di accesso» (login) all’informazione, forse anche sulla base di un «contratto», che permette anche una rapida disconnessione (logoff). Il radicamento in una comunità si risolverebbe in una sorta di «installazione» (install) di un programma (software) in una macchina (hardware), che si può dunque facilmente anche «disinstallare» (uninstall). Infine la partecipazione virtuale rischierebbe di risolversi in qualcosa di simile alla partecipazione a uno spettacolo.

La Rete inoltre può essere compresa come una sorta di grande testo autoreferenziale e dunque puramente «orizzontale». Essa non ha radici né rami e dunque rappresenta un modello di struttura chiusa in se stessa. La Chiesa invece non è una rete di relazioni immanenti, ma ha sempre un principio e un fondamento «esterno». Se le relazioni in Rete dipendono dalla presenza e dall’efficace funzionamento degli strumenti di comunicazione, la comunione ecclesiale è radicalmente un «dono» dello Spirito.

Le «chiese elettroniche» producono una pratica religiosa individuale, che conferma l’esasperata privatizzazione degli scopi della vita e l’individualismo estremo della società dei consumi capitalistica («ciascuno per sé e Dio per tutti»). Non è dovuto al caso il successo dei siti di spiritualità diffusa, svincolata da qualunque forma di mediazione storica, comunitaria e sacramentale (tradizione, testimonianza, celebrazione, ...), tendente a includere tutti i valori religiosi unicamente nella coscienza individuale e spesso di ispirazione new age.

Infine la fede non è fatta soltanto di informazioni, né la Chiesa è luogo di mera «trasmissione», cioè non è una pura «emittente». Essa è luogo di «comunicazione» e «testimonianza» vissuta del messaggio che si «annuncia». Il rapporto diretto, che si crea in Rete, tra centro e qualsiasi punto della periferia forma un’abitudine all’inutilità della mediazione incarnata in un certo momento e in un certo luogo e dunque anche alla testimonianza e alla comunicazione autorevole.

Qualcuno, per fare un esempio, potrebbe chiedersi: perché devo leggere la lettera del parroco se posso realizzare la mia formazione attingendo materiali direttamente dal sito della Santa Sede?

Molti, del resto già, grazie alla televisione, ben conoscono il volto del Santo Padre, ma non riconoscerebbero il vescovo della propria diocesi.

Ricchi e poveri: la disuguaglianza nell’accesso

Si potrebbe osservare, infine, che in epoca di globalizzazione il mondo appare diviso anche a livello di tecnologie di comunicazione e quindi la Rete rischia di segnare un’altra linea di confine tra il mondo industrializzato e i Paesi in via di sviluppo, anche all’interno del mondo ecclesiale. Sappiamo che la sola città di New York ha più postazioni di Rete di quante ne abbia l’intero continente africano. Il 93,3% degli utenti Internet fa parte del 20% della popolazione più ricca del pianeta. Il mondo religioso telematico dunque sarebbe esclusivamente per ricchi. Il criterio morale principale per l’uso di Internet offerto dal documento «Etica in Internet» appae chiaramente la «solidarietà» (n. 5). Internet in questo senso può essere una risorsa, ma anche un rischio: il modello neo-liberista e libertario viene esplicitamente respinto dal documento vaticano (nn. 8 e 14).

L’imperialismo culturale
Altro rischio posto in evidenza da «Etica in Internet» è che le culture deboli corrono il rischio di essere fagocitate dalle più forti, fino a giungere a una omologazione. È questo l’«imperialismo culturale» operato dalla «cultura secolare occidentale» (n. 11), come afferma il documento citato. Ma c’è un passaggio ulteriore: in Rete rischia di passare sostanzialmente l’informazione di chi sa imporsi e dominare il mercato. Afferma il documento, citando il precedente Etica nelle comunicazioni sociali (n. 29): «Sempre più, la tecnologia permette alle persone di raccogliere informazioni e servizi, creati unicamente per loro. In questo vi sono vantaggi reali, ma inevitabilmente sorge una domanda: il pubblico del futuro sarà costituito da una moltitudine di persone che ascoltano uno solo?... Che cosa ne sarebbe della solidarietà, che cosa ne sarebbe dell’amore in un mondo così?» (n.13).

Le opportunità
Il divario dell’informazione e delle comunicazioni rischia di essere profondo. Tuttavia c’è da aggiungere un elemento fondamentale per il nostro discorso: mentre i Paesi ricchi hanno già altre possibilità di comunicare e dare/ricevere informazioni, i Paesi poveri possono avere, grazie a internet, la possibilità di avere contatti di scambio con l’esterno prima impossibili, specialmente in quei Paesi dove l’informazione circola con difficoltà o è sottoposta a censura. L’agenzia MISNA (Missionary Service News Agency) si è servita di Internet come di uno strumento prezioso per raccontare la vita delle giovani Chiese e della società civile di molti Paesi del Sud del mondo. Infatti, grazie a internet, è stato possibile organizzare una rete capillare di missionari in grado di costituire in poco tempo una fonte di informazione, che è punto di riferimento per molta stampa e televisione internazionale. Iniziative simili sono legate a singole istituzioni, come ad esempio nel caso del Jesuit Refugee Service .

Conclusione

Dopo aver descritto le forme del navigare in internet, ho provato a costruire una tipologia degli spazi religiosi virtuali. Descritta dunque in breve una fenomenologia di base, ho messo in evidenza alcuni pericoli e soprattutto alcune sfide da accogliere con ottimismo e discernimento: la risposta ai bisogni religiosi più autentici che emergono in Rete; la sfida di un dialogo spirituale, che trova in essa sempre più spazio; la necessità di valorizzare le nuove possibilità per un intenso e ampio dialogo teologico e interreligioso.

In particolare per la Chiesa cattolica internet rappresenta un ambiente che comporta, come molte realtà umane, rischi e opportunità, pericoli e risorse. Occorre ricordare che il mezzo non deve mai tradire il messaggio e che la comunicazione cristiana deve sempre essere ispirata alla valorizzazione della persona umana nella sua complessità. La Chiesa comunque non potrà mai essere intesa unicamente come una «comunità virtuale» né essere «ridotta» a una rete autoreferenziale, seppure potenzialmente infinita nella sua estensione. Tuttavia la Chiesa stessa è chiamata a vivere nel mondo ed esso non può non determinarne anche la figura concreta, storica e i modelli di comunione possibili. Internet dunque rappresenta chiaramente una «nuova frontiera della missione della Chiesa» a livello sia pastorale sia di riflessione sistematica.

In caso di naturale disorientamento, il cristiano dovrebbe ricordare le parole di Paolo VI, il quale nella Evangelii nuntiandi, riferendosi ai media, affermava che «la Chiesa si sentirebbe colpevole davanti al Suo Signore se non adoperasse questi potenti mezzi, che l’intelligenza umana rende ogni giorno più perfezionati» (n. 45). Giovanni Paolo II lo ha ribadito con parole forti e plastiche: «esorto tutta la Chiesa a varcare coraggiosamente questa nuova soglia, per “prendere il largo” nella Rete».








CENTRO STUDI ORIENTE OCCIDENTE

CONVEGNO - ANCONA, 23/24/25 OTTOBRE 2003

REALTA' E CONTRAFFAZIONI DEL SACRO

Discernimento, Trappole e Travisamenti Lungo i Percorsi dell’Attualita’ Socio-Religiosa

VELAMENTO DI SE' E DISVELAMENTO DIO: NUDITA', VERECONDIA E PUDORE (SPECIALMENTE FEMMINILE) NELLE RELIGIONI
sr. CHIARA LAURA SERBOLI
sorella Clarissa del Monastero di Santa Chiara in San Severino Marche 

Nella riflessione più recente il pudore viene ricollocato in una sfera di rilevanza ontologica e personalista. Credo infatti, che oggi si imponga un recupero metafisico del pudore che metta a profitto le acquisizioni psico-sociologiche, immettendole in un orizzonte sostanziale.

Nel nostro caso ritengo si possa affermare che, mentre il pudore, inteso nel suo profondo senso di custodia dell’intimità è un dato costante della persona in quanto connesso alla sua situazione ontica ed esistenziale, le sue espressioni sono quanto mai storiche e relative. Il suo legame con il rispetto dovuto all’uomo ne fa un grande tema etico, mentre la pretesa di codificarlo – come spesso è stato fatto – in una rete di norme obiettivate lo abbassa a un mero precettismo moralistico.

Il pudore che spesso è stato convogliato verso l’unica sfera dell’aspetto sessuale, e in particolare riferito al solo versante femminile, costituisce in realtà lo stile di rispetto che deve presiedere a tutta la vita di relazione della persona in quanto tale, al di là dell’essere uomo o donna.
C’è, infatti, una zona inviolabile di sé – non necessariamente né primariamente fisica – che non sopporta di essere resa pubblica e si difende dalle intrusioni estranee: una zona che non tollera d’essere conosciuta se non da sé e da chi ci sia così intimo da farsi come “interno a noi stessi”. E non sopporta d’essere resa pubblica forse perché non tollera di poter essere fraintesa o manomessa: resa oggetto, o cosa, o merce saccheggiabile.

Il pudore sembra quindi essere connesso col nostro essere limitati e incarnati.
Non si tratta, allora, di un atteggiamento imposto dall’esterno, ma di una realtà ontologica propria dell’essere umano. L’universalità del senso del pudore, anche se si traduce in maniere diverse secondo le culture, è l’espressione di un timore che tocca la verità dell’umano, timore di essere ridotto allo statuto di oggetto, sottomesso a uno sguardo deprezzante e impersonale.

Il pudore è dunque al tempo stesso il rifiuto di questo deprezzamento e attesa della qualità di uno sguardo amante e personalizzante che restituisce alla persona la dignità e l’identità profonda e totale.
È questo lo sguardo capace di ridare la vita, di far risorgere: stiamo parlando dello sguardo di Dio. Uno sguardo che il Creatore ha già rivolto all’uomo nel giardino dell’Eden quando “fece tuniche di pelli e li vestì” in seguito alla caduta (cfr. Gn 3,21).

Prima del peccato l’uomo e la donna vivevano in una relazione d’amore perfetta con il Creatore. “Erano nudi ma non ne provavano vergogna” perché vivevano in un’innocente unità con se stessi e in una comunione totale con Dio, con l’altro e con il creato (Gn 2,25).
Il peccato infrange la comunione con Dio e l’unità dell’uomo con sé stesso creando una spaccatura interiore che genera la vergogna. Bonhoeffer annota che la vergogna “è il ricordo ineliminabile della separazione dell’uomo dalla propria origine; è la sofferenza per questa separazione e il vano desiderio di annullarla. L’uomo si vergogna perché ha perduto qualche cosa che formava parte del suo essere originale, della sua integrità: si vergogna di essere stato messo a nudo” (cfr. “L’etica”).

La nudità, nel linguaggio della Bibbia, è lo stato di base, è la radicalità dell’uomo, è l’uomo senza nessuna specificazione, è l’uomo nella sua purezza, limite e splendore, grandezza e debolezza. L’uomo così, nella sua nudità interiore ed esteriore, si presenta di per sé come una realtà meravigliosa.

Quando l’uomo è in pace con Dio, non ha vergogna della sua nudità, non ha vergogna della sua realtà: egli si accetta. Quando invece la sua libertà è ormai spezzata, quando sente che ha dentro di sé un’opzione che tra poco lo porterà a incrinare sempre più la comunione con Dio, ebbene in quel momento l’uomo ha paura della sua nudità. Sente che non è più limpido come prima e non può più accettarsi. Sente il bisogno di coprirsi ed è Dio stesso che va incontro a questa necessità esistenziale vestendolo.

Allora le tuniche di pelle diventano un segno teologico: il segno di Dio che cerca l’uomo e se ne prende cura; il segno della rinnovata alleanza del Creatore con la creatura. Questo segno è distintivo della relazione tra Jhwh e il popolo d’Israele.

Ad esempio in Ezechiele (Ez16,8), Jhwh passa vicino a Israele abbandonata nel deserto completamente nuda, cioè senza rango, senza personalità, stende su di lei un lembo del suo mantello e la copre, indicando con questo gesto che Egli contrae alleanza con Israele sotto il simbolo dell’unione coniugale. Infatti, il Libro dei Numeri (Nm 5,18) prescrive al sacerdote di scoprire la testa della donna quando questa sia stata presentata dal marito sospettata di adulterio.

Le donne sposate in Israele dovevano presentarsi in pubblico con il capo velato; quando se ne spogliavano indicavano che erano private di protezione legale e d’identità. Se lo spogliarsi era volontario significava darsi alla prostituzione.
Tale funzione del velo è ripresa da Paolo nella prima lettera ai Corinzi al cap. 11 con il medesimo duplice significato d’appartenenza e nuova identità, significato presente anche nelle usanze dei popoli non cristiani.

Tutto ciò è stato ripreso dalla Liturgia dei primi secoli, come ci testimonia l’“Ambrosiaster” (circa seconda metà del IV sec.), in cui il momento centrale del rito del matrimonio è la velazione. In precedenza, il velo ricopriva il capo di entrambi gli sposi richiamando il baldacchino del talamo nuziale, segno per eccellenza dell’intimità e della custodia della relazione sponsale.

Questo è l’elemento più espressivo della tradizione profana a cui la Chiesa attinge: il giorno delle nozze la giovane indossa un velo che l’annovera tra le donne maritate. Accompagnata da una benedizione, l’imposizione del velo, a partire dal IV sec, divenne il rito essenziale del matrimonio cristiano a Roma e nei paesi della sua area culturale.

Nella stessa epoca la velatio, effettuata pubblicamente e accompagnata da un’appropriata benedizione, divenne il rito essenziale della consacrazione delle vergini cristiane e ancora oggi, per noi che scegliamo di seguire Cristo nella forma di vita consacrata, il segno della velazione resta la memoria visibile di un’appartenenza totale e totalizzante a Cristo sposo. È importante rilevare anche che, alle origini, le consacrate non indossavano abiti speciali: il velo era l’unico segno ufficiale della loro appartenenza a Dio.

Come le tuniche di pelle per l’uomo caduto e il lembo del mantello per il popolo eletto sono il simbolo del rinnovarsi dell’alleanza e della predilezione di Dio, così il velo, ieri come oggi, mantiene il significato dell’alleanza nuziale tra l’uomo e la donna, tra la vergine e Cristo, facendosi espressione della relazione sponsale e del senso del pudore quale custode di questa e di tutte le relazioni, umane e spirituali.

Il velo, allora, si configura come custode dell’intimità e della verità della relazione che non consente mai una conoscenza esaustiva dell’altro, perché l’altro rimane sempre avvolto dal mistero.
Questo è tanto più vero quando il partner della relazione è Dio.
L’esperienza di Mosè è icona del rapporto autentico tra l’uomo e il “totalmente Altro” (cfr. Karl Barth). La presenza del velo è centrale nei due episodi della rivelazione massima che Jhwh ha dato di sé nella tradizione veterotestamentaria e cioè quando rivela il suo nome e quando consegna le tavole della legge.

Nell’episodio del roveto ardente (cfr. Es 3,6 ss) Mosè si copre il volto perché teme: è il timore sacro di fronte a Dio; è la consapevolezza che la relazione tra l’uomo e Dio rimane sempre velata perché caratterizzata dal mistero quale dimensione costitutiva dell’Assoluto. Questo mistero è ineludibile anche nel momento in cui Dio rivela il suo nome nel quale, secondo la concezione dell’ebraismo, è contenuta l’essenza della persona.

Invece nell’episodio in cui Mosè riceve le tavole dell’alleanza il velo viene posto sul viso dopo l’incontro. Scendendo dal monte Sinai (cfr Es 34, 29-35) la Gloria di Dio splende sul volto di Mosè rendendolo raggiante. Ed è qui che Mosè, intimo di Dio, segno vivente della presenza divina in mezzo al popolo, si copre il volto di fronte a Israele, quasi a esprimere la trascendenza del Dio di cui è intimo e mediatore.

Qui il velo continua a rimandare alla dimensione del mistero e assume l’ulteriore significato del carattere intimo ed esclusivo del rapporto personale con Dio. Questa relazione, la cui autenticità è garantita dal senso del pudore, diventa il modello paradigmatico di ogni incontro con l’alterità. Ciò significa che il pudore si presenta come conditio sine qua non affinché si possa parlare di relazione autentica.

Contrariamente al luogo comune secondo il quale il pudore inibisce, respinge, chiude e impedisce una reciproca donazione totale, ritengo che in esso l’io e il tu si trovino in stretta e inscindibile relazione: attraverso il pudore, infatti, l’io invita il tu a non risolverlo esclusivamente nella propria corporeità, lo sollecita a intravedere – dietro il velo che impedisce la piena rivelazione della persona – il mistero del proprio essere.

Offrirsi allo sguardo altrui come mera corporeità significa rinunciare a essere persona e farsi accettare solo come oggetto.
Mentre il pudore aiuta a cogliere la socialità come rapporto fra persone, l’ostentazione la riduce a rapporto fra una persona divenuta sguardo e un’altra persona divenuta puro oggetto di sguardo.

Il nostro retaggio culturale ci porta a identificare la persona divenuta sguardo con la figura maschile, e quella divenuta puro oggetto di sguardo con la figura femminile che nel tentativo di liberarsi da secoli di sottomissione è caduta nell’eccesso contrario della totale ostentazione di sé. Tuttavia questa emancipazione della donna, da un verso le ha permesso di esprimere la sua ricchezza e il suo genio, dall’altro, quando ha assunto contorni esasperati che l’hanno condotta a una pseudo-libertà divenuta alienazione riducendola alla condizione di oggetto, di fatto l’ha riportata a una nuova schiavitù.

La mancanza di pudore scoraggia la ricerca diretta a cogliere, al di là delle apparenze esteriori dell’altro, l’interiorità della sua vita personale, il patrimonio di valori che l’altro reca in sé, tutto ciò che l’impossibilità di superare totalmente il velo della corporeità lascia solo intuire.
Il caso più frequente si ha, ad esempio, quando il corpo femminile è trattato alla stregua di una realtà fisica, come oggetto di sfruttamento. La donna spesso così avvilita a merce, tradisce le sue origini trascendenti.

Come dice il teologo Campanini (cfr. “Il senso del pudore” in Studium n. 9 1965): “l’offesa del pudore è un insulto perpetrato contro l’interiorità”. Infatti ciò che riduce la persona a corporeità, ne misconosce il senso profondo e la dimensione metafisica.

Il pudore invece costituisce un invito a ricercare – dietro lo stimolo rappresentato dall’incompleto svelamento della corporeità e dal mantenimento di una sfera di silenzio e di segreto – il mistero racchiuso, al di là del corpo e insieme con esso, nell’essere.

Il vestirsi, come esteriorizzazione del senso del pudore, è allora finalizzato non solo a velare quelle parti del corpo che non vogliamo far conoscere, ma anche a condurre lo sguardo verso il nostro volto e i nostri occhi: in tal modo l’incontro con lo sguardo dell’altro e la sua percezione della nostra personalità precedono l’apprezzamento per il nostro corpo e indicano il livello in cui deve avvenire la comunicazione interpersonale.

Nella nostra cultura contemporanea, in apparenza il corpo è fortemente valorizzato, nulla sembra tanto desiderabile quanto il suo benessere: le immagini di corpi perfetti dall’aspetto giovanile e l’abbronzatura perenne sorridono sulle copertine delle riviste, sui muri delle nostre città, nei programmi televisivi.

Ma a guardare le cose in profondità si tratta davvero di valorizzazione? È davvero il corpo reale quello che viene così esaltato? O non piuttosto un corpo ideale, immaginario, fittizio e in definitiva inesistente sottomesso a norme determinate quali la leggerezza e la bellezza a tutti i costi?
Un corpo, in ultima analisi, piuttosto evanescente, estraneo al tempo, all’invecchiamento, alla fatica e alla sofferenza. Un corpo strumento, per il lavoro o per il godimento. Un corpo macchina per la scienza, cosa spiegabile fra le cose spiegabili. Un corpo senza mistero.

Si profila dunque l’immagine di una corporeità pienamente realizzata. Ma se ci si interroga sul senso e sulla portata dei comportamenti, ecco subito farsi strada una certa perplessità. Quale valore viene realmente attribuito alla corporeità e agli atti che la esprimono? Leggera, facile, senza poste in gioco serie: non è essa forse minacciata dalla insignificanza? Che ne è del senso riconosciuto al corpo se i gesti più intimi diventano dei puri mezzi? Può risultare che esista uno scarto tra i modelli superficiali della cultura più chiassosa e ciò che vivono o provano veramente le persone reali.

Nella cultura imperante, la corporeità è di fatto minacciata di banalizzazione, vale a dire di depauperamento del senso e di negazione della sua parte di mistero.
Tra l’apparenza e la realtà è dunque possibile un rovesciamento. Un’esaltazione può mascherare un deprezzamento. L’assolutizzazione può accompagnarsi allo svuotamento.

Invece ciò che mi preme sottolineare è che il senso del pudore restituisce al corpo il suo significato più proprio: non si tratta di negare o sottovalutare la corporeità ma di operare un’assunzione completa di questa nella personalità.

Il pudore rimette le cose in ordine, si pone a fianco della persona per affermarne i valori spirituali. I moti istintivi vengono riportati al loro posto e incanalati attraverso i valori morali. In questo senso il pudore è generatore di forza spirituale mentre la sua mancanza è debolezza spirituale e metafisica in quanto è rifiuto della globalità del mistero che ogni persona custodisce dentro di sé.

La maggior parte dei nostri contemporanei è convinta che il cristianesimo si contraddistingua per il suo disprezzo del corpo. Eppure il cristianesimo è la religione dell’Incarnazione, del Verbo fatto carne, dell’Eucaristia e della Risurrezione della carne!
È al corpo e non all’anima soltanto che è promessa la vita eterna: nell’evento dell’incarnazione, come intuisce Peguy “il soprannaturale è anche esso carnale”.

Tutto quello che abbiamo detto ci porta ad affermare che il senso del pudore conduce all’imprescindibile indissolutezza di corpo e anima, di materia e spirito, quindi oltre a essere custode di questa unità, è rivelatore dell’essenza dell’uomo come corpo abitato dallo Spirito.

Nel NT più volte S. Paolo sottolinea: “non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?” (1Cor 6, 15) oppure “non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi?... glorificate dunque Dio nel vostro corpo” (1 Cor 6, 19 - 20).
Il testo di S. Paolo raggiunge vette di rara intensità con affermazioni che contengono in germe tutta la teologia cristiana del corpo, “tempio dello Spirito santo” - alla lettera si potrebbe tradurre “tabernacolo dello Spirito santo”.

Il termine rinvia al Santo dei santi del tempio di Gerusalemme, cioè al luogo della presenza reale di Dio. Peraltro, contrariamente all’idea acquisita secondo cui il nostro corpo ci appartiene, il che è vero a un certo livello umano, S. Paolo afferma che il nostro corpo non è solamente e non è esattamente nostra proprietà. Fondamentalmente relazionale, il corpo è realtà che noi riceviamo due volte da Dio: come creato dal Padre e come salvato da Cristo.

In un certo qual senso, la nostra vita è sì nostra e in ciò consiste la nostra libertà, ma tale libertà giunge alla sua verità solo se si riconosce come vita ricevuta.

Ecco dunque il corpo innestato sulla vita trinitaria stessa: riceve la propria vita dal Padre, è inserito nel corpo di Cristo, è abitato dallo Spirito. Il Padre è l’origine, la sorgente del dono; il Cristo è la forma, il volto, il primogenito, il cui corpo, oggi, è la Chiesa, alla quale noi apparteniamo in maniera assolutamente corporale; lo Spirito è il soffio, il dinamismo divino che trasmette al corpo la sua vita più intima.

Allora alla soglia della scoperta del Dio che ci abita c’è l’atteggiamento della sentinella che, nella veglia della notte, attende silenziosa l’incontro con Colui che è più intimo a lei di sé stessa (cfr. Sant’Agostino).
Questo silenzio che consente di percepire la presenza dello Spirito Santo negli abissi della nostra persona è direttamente collegato con il pudore. Esiste una realtà detta e dicibile e una non detta e non dicibile, difesa appunto dal silenzio. A esso è affidato il compito di preservare aspetti del vissuto che se svelati sarebbero profanati.

Ci sono realtà che possono essere interpretate solo dal silenzio. La parola che si proferisce è pienamente sé stessa quando lascia intravedere il non detto e invita l’interlocutore a persistere nell’ascolto.
La vita divina che batte dentro di noi rimane nascosta e sollecita a un ulteriore attesa e ricerca. L’inespresso non è dovuto a una mancata volontà di comunicare, quanto all’insondabilità della persona umana. Conoscere il mistero dell’uomo è saper prendere coscienza che il Dio che ha preso dimora in noi in forza del battesimo, nel suo rivelarsi mantiene una parte di segreto gradualmente avvicinabile da chi sa attendere e a Lui anela con la pazienza del silenzio.

Per concludere, il pudore, esteriormente manifestato dalla velazione – cifra della custodia di quel sé intimo e profondo reso sacro dall’inabitazione trinitaria – si fa strumento che spalanca al disvelamento di Dio nell’incarnazione di Gesù Cristo.
La rivelazione portata dal Figlio di Dio diventa disvelamento, che si rende visibile nel segno dello squarcio del velo del Tempio (cfr. Mc 15, 38 e Lc 23, 45).

Quest’ultimo separava il Santo dei santi, dal resto, facendone il luogo più intimo dove si nascondeva la Gloria e si custodiva l’arca dell’alleanza. Vi passava, come sappiamo, solo il sommo sacerdote, una volta l’anno per il rito di espiazione nel giorno della riconciliazione.

Con la morte di Gesù cessa ogni separazione tra Dio e uomo: non c’è più nessun velo che li divide e Dio stesso non ha più veli. Nel suo Figlio, dato per noi, Dio si è svelato come il Padre delle Misericordie.

Sul Golgota Dio strappa la coltre che copre il volto di tutti i popoli ed elimina la morte per sempre. Finalmente è manifesta la Gloria: il peso del suo amore per noi ha lacerato e strappato tutto ciò che lo tratteneva in seno al Padre con il Figlio, e si è riversato su tutta la terra.
Il velo non poteva essere squarciato che dall’alto, cioè da Dio stesso. E si divide in due, perché rivela il duplice mistero di Dio e dell’uomo, che è uno solo in Gesù.

Questo mistero, pienamente rivelato in Gesù Cristo, rimane – per l’uomo immerso nella contingenza della temporalità – ancora nascosto perché le realtà divine si offrono sotto la categoria dei segni; allo stesso tempo annuncia già la pienezza della rivelazione escatologica che avverrà al termine della storia.

Infatti – come dice S. Paolo – fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non rimosso, perché è in Cristo che esso viene eliminato: quando ci sarà la conversione al Signore quel velo sarà tolto. E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore” (2 Cor 3, 14-18).

Potremmo aggiungere, al termine di questa riflessione, che il significato originario della velazione come segno dell’appartenenza e della fedeltà reciproca tra l’uomo e la donna o tra la vergine e Cristo, nella visione medioevale della donna come tentatrice aveva assunto anche il senso di protezione dell’uomo dall’occasione di peccato, trasformando la reciproca appartenenza in possesso e conseguente dipendenza della moglie dal marito.

È da questa sottomissione che la donna ha voluto sciogliersi attraverso l’odierna liberazione da ogni velo. Ciò che però è auspicabile è il ritorno a quel significato originario del velarsi che rimanda all’imprescindibile necessità della vita interiore, custodita dal senso del pudore quale dimensione autentica dell’esistenza.

Notare la differenza sostanziale tra velazione delle donne musulmane e delle donne nella tradizione giudeo-cristiana:

  1. la donna deve proteggersi dall’uomo: quale immagine di uomo? Un uomo che non sa minimamente governare i propri istinti e una donna che, con le sue “fattezze” istiga l’uomo alla concupiscenza. Quale libertà tanto proclamata se la donna deve continuamente difendersi dall’uomo?

  2. la donna tentatrice, nel medioevo, è velata per protezione dell’uomo. C’è sempre qualcosa da cui difendersi, proteggersi...

  3. la donna odierna, cristiana, si vela come segno di appartenenza a qualcuno, nella vera libertà dei figli di Dio. 





I N T R O D U Z I O N E AL CONVEGNO , Giuseppe A. Possedoni




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