CONVEGNO - ANCONA, 23/24/25 OTTOBRE 2003
REALTA' E CONTRAFFAZIONI DEL SACRO
Discernimento, Trappole e Travisamenti Lungo i Percorsi dell’Attualita’ Socio-Religiosa
N.B. Quelle che seguono sono semplicemente note scritte finalizzate alla presentazione orale del tema nei tempi stabiliti. Mancano quindi note e citazioni dirette, d’obbligo in un lavoro a stampa.
Che cos’è internet?
Qualcuno parla anche di un «diluvio universale delle informazioni». «Google», uno trai migliori motori di ricerca della Rete, ha indicizzato al momento 3 miliardi e 300 milioni di pagine Web. La Rete si muove e si evolve «biologicamente» come un organismo: non esiste un controllo supremo. Essa si autorganizza e si espande al di là di ogni forma di strutturazione gerarchica o di selezione previa di contenuti.
La presenza del «religioso»
Navigando nella «Grande Rete» (World Wide Web), è facile accorgersi della presenza al suo interno di elementi legati al sacro e alla religione. God in cyberspace ha titolato un noto mensile inglese di teologia. Digitando la parola God, cioè Dio nella lingua principale del web, l’inglese, in un «motore di ricerca» o religion, Christ, spirituality, otteniamo liste di decine di milioni di pagine trovate.
La domanda che a questo punto ci poniamo è la seguente: è possibile capire che cosa di religioso esiste in Rete? La risposta è affermativa: si possono consultare utilmente sia volumi che realizzano una sorta di censimento organizzato, sia motori di ricerca tematici, sia infine siti costruiti appositamente o studi già presenti in Rete.
Qui dunque non mi occuperò di tale catalogazione. Ma la domanda che resta aperta riguarda il come sacro e religioso siano presenti. In altri termini, è possibile costruire una, seppur provvisoria e discutibile, fenomenologia del religioso in internet?
Tenterò di rispondere a questa domanda, facendo una proposta di descrizione e analisi attraverso esempi del fenomeno, che in sé si presenta come «inclassificabile» proprio perché in costante mutamento.
Esistono gruppi di preghiera virtuali, spontanei o legati a monasteri o ad altre istituzioni. Esistono anche biblioteche esclusivamente virtuali, che hanno «sede» cioè soltanto in internet e che contengono testi unicamente digitali scaricabili sul proprio computer.
Realtà metaforiche di luoghi religiosi tradizionali
Nella Rete esistono metafore di luoghi tradizionali che hanno a che fare con il sacro e il religioso. Troviamo infatti cyber-cimiteri, dove si possono lasciare messaggi o accendere lumini virtuali, ma anche cyber-cappelle dove sostare a pregare. Esistono forme di cyber-celebrazioni per le quali si è parlato anche di una sorta di computer-altare (come, del resto, si era parlato anni fa di televisore- altare) o addirittura di «telepresenza reale». Esistono cyber-case di esercizi spirituali e, in questo caso, il computer diventa una sorta di spazio di preghiera virtuale, dove sono forniti spunti di meditazione da utilizzare in tempi adeguati della giornata. Infine è da ricordare l’esistenza di un cyber-presbiterio italiano.
Il bisogno di Dio e cyber-spiritualità
Nella Rete si nota, insieme a un’interessante evoluzione delle competenze tecniche, una crescita di bisogni religiosi che la «tradizione» riesce a fatica a soddisfare. Alcune statistiche affermano, ad esempio, che il 25% degli internauti americani usa la Rete almeno una volta alla settimana per rispondere a interrogativi religiosi.
L’uomo alla ricerca di Dio oggi si pone anche di fronte a uno schermo e avvia una navigazione. Un’osservazione attenta su questo fatto mostra come nel «navigare» lo sguardo che è alla ricerca è manipolato e orientato dal tatto: si naviga col mouse che si muove con la mano e dunque è quest’ultima a guidare lo sguardo. La conoscenza, che passa dal visivo al tattile (per poter cercare, trovare e vedere occorre toccare) e la dimensione interattiva quali effetti avranno sull’esperienza del sacro?
La logica dell’«apparizione», non è senza conseguenze in un contesto di self service dell’anima. In tal modo ci si illude che il sacro o il religioso sia «a portata di mouse»: basta un click per passare da un sito di neo-stregoneria a quello di un’apparizione mariana, oppure da un tempio neo-pagano a un sito di cristiani tradizionalisti.
La Rete, può contenere di tutto e dunque facilmente può essere paragonata a una sorta di grande supermarket del religioso (che è dunque «mercato», con tutte le conseguenze di tipo economico del caso: promozione e vendita di oggetti, diete, servizi di culto, musica, gadget, immagini, consulenze e truffe di vario genere), in cui è possibile trovare ogni genere di «prodotto» religioso con grande facilità: dalle riflessioni più serie e valide alle religioni che una persona annoiata si inventa per gioco e ai nuovi «messia». Ciascuno può attingere dalla Rete non secondo reali esigenze spirituali, ma secondo bisogni da soddisfare.
Il primo bisogno sembra essere il «benessere spirituale», al di là delle domande sui valori o sui significati profondi della vita. Alcuni siti religiosi che si rifanno a precise tradizioni spirituali più solide sembrano, talvolta, essere «contaminati», diciamo così, da queste esigenze: può accadere di imbattersi in siti con angioletti ammiccanti, iconcine mielose e sfavillanti, lumini, stelline, lucette, musichette e così via. Il kitsch religioso dice un bisogno di intimismo, di consolazione a metà tra videogioco e pietà popolare.
Ci si illude dunque che il sacro resti «a disposizione» di un «consumatore» nel momento del bisogno. Il cristiano, in realtà, non è mai un «consumatore di servizi religiosi», e il cristianesimo si autocomprende come portatore di un messaggio, quello della morte e resurrezione di Cristo, resistente alle assimilazioni e «scandaloso». Una presenza cristiana in Rete deve far leva dunque su questa resistenza, sul fatto che la parola del Vangelo scuote, non serve a «far star bene» e, al contrario, rischia sul serio di mettere in crisi le coscienze, cioè di «far star male», se mi è permessa l’espressione. Una strada da affrontare, ad esempio, è quella della reticenza e del rinvio silenzioso, in un «mercato» già saturo di messaggi.
Per comprendere il pericolo dell’omogeneizzazione religiosa sono da visitare siti come Beliefnet, dove le religioni sono messe in mostra, una al pari dell’altra, in un cocktail religioso spesso disarmante.
Ma internet è anche incubatrice di nuove forme di religiosità che considerano la Rete come uno «spazio sacro». La vita spirituale viene trasferita alla virtualità digitale condivisa in un network globale che genera un «cervello globale embrionale» o, addirittura la «realtà del regno spiritualedell’Universo Fluido della Forma senza Forma, il regno del pensiero, dell’intelletto, dell’immaginazione, il flusso della mente globale», come si legge, ad esempio, in un messaggio elettronico.
In effetti la scena mediatica non è una «rappresentazione» o una mimesi della realtà, del mondo. Il cyberspazio, l’ambiente virtuale elettronico, è un mondo sì immateriale, ma un vero e proprio «mondo». Il navigante è coinvolto in una pratica concreta, non sta utilizzando solo un sistema di rappresentazione astratto. La realtà è virtuale non nel senso che non è reale, ma nel fatto che è reale nella sua esecuzione. Sta emergendo dunque una «spiritualità» che fa riferimento a questo «mondo» e che ha i tratti dell’esperienza multimediale e iper-testuale. Si tratta della spiritualità delle cosidette «cybereligioni» o «religioni di rete», quali il neopaganesimo, il tecnopaganesimo, il tecnosciamanesimo, il tecnobuddhismo, i culti ecologici tecno-spirituali. E tuttavia, proprio attraversando questi siti e gli strumenti che essi mettono a disposizione, è anche possibile farsi un’idea del bisogno profondo di Dio che agita il cuore umano, seppure vissuto in maniera spesso alienante e distorta.
La Rete dunque è spazio di discernimento e di missione: evaderla significherebbe venir meno a una sfida impegnativa e importante.
La Rete e la pastorale
L’uomo infatti non resta immutato dal modo con cui manipola il mondo: a trasformarsi non sono solo i mezzi di comunicazione, ma l’uomo stesso e la sua cultura.
L’impegno nei mass media così «non ha solo lo scopo di moltiplicare l’annunzio: si tratta di un fatto più profondo, perché l’evangelizzazione stessa della cultura moderna dipende in gran parte dal loro influsso. Non basta, quindi, usarli per diffondere il messaggio cristiano e il magistero della chiesa, ma occorre integrare il messaggio stesso in questa “nuova cultura” creata dalla comunicazione moderna. È un problema complesso, poiché questa cultura nasce, prima ancora che dai contenuti, dal fatto stesso che esistono nuovi modi di comunicare con nuovi linguaggi, nuove tecniche e nuovi atteggiamenti psicologici» (Redemptoris missio, n. 37).
Dunque, in questo senso, la stessa esperienza pastorale può ridefinirsi in un clima che è certamente nuovo non solo perché sono nuovi gli strumenti, ma perché essi si accompagnano anche ad una novità culturale e relazionale. Il documento «La Chiesa e internet» esplicita chiaramente inoltre il fatto che non solo i media influenzano fortemente ciò che le persone pensano della vita, ma che «l’esperienza umana in quanto tale è diventata una esperienza mediatica» (cit. di Aetatis novae n. 2 in CI n. 4). La pastorale è obbligata a fare i conti con questa forma di esperienza. Infatti afferma seccamente il documento: «Poiché annunciare la Buona Novella a persone immerse nella cultura dei mezzi di comunicazione sociale richiede l’attenta considerazione delle peculiarità dei mezzi di comunicazione stessi, ora la Chiesa ha bisogno di comprendere Internet» (n. 5)
La relazione in Rete è per sé molto anonima e impersonale, in quanto ciascuno può far credere di essere ciò che non è a livello di età, sesso e professione, esprimendosi senza i limiti dati dalla propria identità pubblica. In Rete si diventa messaggio. Insomma si dialoga per quel che ci si sente di essere e per il «pensiero puro», diciamo così, che si esprime.
Proprio per questo dunque, è anche molto confidenziale, perché permette di dire di sé cose che altrimenti difficilmente una persona direbbe nei suoi panni quotidiani. Si può avere un’apertura completa e un grande livello di autenticità, ma d’altra parte si può cadere anche nello spontaneismo senza limiti e senza pudori. Il cyberspazio comunque è un «luogo» emotivamente caldo e non algidamente tecnologico, come qualcuno sarebbe tentato di immaginare.
Il rapporto in Rete dunque può essere anonimo, ma anche estremamente «vero». Esso tuttavia può anche essere inteso, da chi lo vive, come molto volatile e non impegnativo, perché il legame che si crea con l’altra persona è del tutto immateriale. Basta disconnettersi o chiudere il programma per chiudere la relazione.
La relazione spirituale in Rete richiede dunque una certa familiarità con l’ambiente virtuale in cui ci si trova. Al di là dell’uso più semplice per la comunicazione rapida di informazioni, essa va comunque considerata come un’opportunità da cogliere con spirito di fiducia e, insieme, di attento discernimento nella direzione di rapporti «veri».
La Rete e il dialogo teologico
1. La Rete realizza una mutazione nel modo di vivere le istanze di comunicazione e di comunione. Pensiamo alla comunicazione costante tra persone che lavorano a una stessa idea e che però abitano in varie parti del mondo e non si conoscono personalmente. Esse realizzano tra loro, se entrano in relazione forte, una sorta di «coscienza comune». Ciò certamente ha ricadute in ambito teologico, tanto più se la comunicazione avviene tra persone che per cultura e formazione usano metafore, immagini e linguaggi differenti per dire Dio e la fede. Esistono numerosi siti, forum e mailing list di teologia, al cui interno è possibile un dialogo in altro modo estremamente difficoltoso.
2. D’altra parte questo dialogo si realizza in un ambiente, internet appunto, la cui logica non è sequenziale-argomentativa, ma ipertestuale: nella Rete si procede non una pagina dopo l’altra, ma passando, attraverso parole chiave e collegamenti da un luogo virtuale a un altro, da un sito a un altro. Ciò sviluppa maggiormente la capacità intuitiva e di immaginazione.
3. La conoscenza non prevede più un «centro» da cui si deducono dei raggi, ma tutto può essere centro e dappertutto si può raggiungere qualunque luogo. Il sapere è non-gerarchico e frammentato e non c’è differenza tra interno ed esterno.
Quali effetti avrà tutto ciò sulla conoscenza e la comunicazione teologica? Si tratta di una domanda che impegna la teologia su vari piani.
Il primo livello è certamente quello dello studio che usa teorie, modelli, metodi della scienza delle comunicazioni in grado di aiutare la propria riflessione sulla fede e quello del modo di comunicare la teologia. Un modello di teologia della Rivelazione di tipo «verbale», che inquadra l’uomo come «uditore della Parola» o, se vogliamo, il modello della parabola puntata al cielo o quello dell’uomo-radar rischiano, infatti, di non essere così esplicativi come lo erano in passato. Se una volta l’uomo era visualizzabile come un essere alla ricerca di una risposta sulla sua vita, adesso è più inquadrabile come una persona in atteggiamento di scelta, selezione, discernimento sulla risposta più adatta e soddisfacente. Deve insomma imparare sia a cercare sia a trovare.
Inoltre è da affrontare il livello dello studio teologico sistematico sul fenomeno della comunicazione in Rete: le categorie teologiche possono essere applicate alla comunicazione sia in termini di maggiore comprensione del fenomeno (Teologia della comunicazione) sia in termini di valutazione etica (Teologia morale della comunicazione).
La Rete dunque nei confronti della teologia offre opportunità e, insieme, lancia sfide di ordine sia metodologico sia speculativo.
Internet ed ecclesiologia
Certamente la relazionalità della Rete funziona se i collegamenti (link) sono sempre attivi: qualora un nodo o un collegamento fosse interrotto, l’informazione non passerebbe e la relazione sarebbe impossibile. La reticolarità della vite nei cui tralci scorre una medesima linfa non è distante dall’immagine di internet, tutto sommato. Da ciò si intende che la Rete è immagine della Chiesa nella misura in cui la si intende come un corpo che è vivo se tutte le relazioni al suo interno sono vitali. Poi l’universalità della Chiesa e la missione dell’annuncio «a tutte le genti» rafforzano la percezione che la Rete possa essere un buon modello di valore ecclesiologico.
Questo modello, però, rischia di avere una ricaduta negativa sul significato dell’«appartenenza» ecclesiale. Essa sarebbe frutto di un «consenso» e dunque «prodotto» della comunicazione. In questo contesto i passi dell’iniziazione cristiana rischiano di risolversi in una sorta di «procedura di accesso» (login) all’informazione, forse anche sulla base di un «contratto», che permette anche una rapida disconnessione (logoff). Il radicamento in una comunità si risolverebbe in una sorta di «installazione» (install) di un programma (software) in una macchina (hardware), che si può dunque facilmente anche «disinstallare» (uninstall). Infine la partecipazione virtuale rischierebbe di risolversi in qualcosa di simile alla partecipazione a uno spettacolo.
La Rete inoltre può essere compresa come una sorta di grande testo autoreferenziale e dunque puramente «orizzontale». Essa non ha radici né rami e dunque rappresenta un modello di struttura chiusa in se stessa. La Chiesa invece non è una rete di relazioni immanenti, ma ha sempre un principio e un fondamento «esterno». Se le relazioni in Rete dipendono dalla presenza e dall’efficace funzionamento degli strumenti di comunicazione, la comunione ecclesiale è radicalmente un «dono» dello Spirito.
Le «chiese elettroniche» producono una pratica religiosa individuale, che conferma l’esasperata privatizzazione degli scopi della vita e l’individualismo estremo della società dei consumi capitalistica («ciascuno per sé e Dio per tutti»). Non è dovuto al caso il successo dei siti di spiritualità diffusa, svincolata da qualunque forma di mediazione storica, comunitaria e sacramentale (tradizione, testimonianza, celebrazione, ...), tendente a includere tutti i valori religiosi unicamente nella coscienza individuale e spesso di ispirazione new age.
Infine la fede non è fatta soltanto di informazioni, né la Chiesa è luogo di mera «trasmissione», cioè non è una pura «emittente». Essa è luogo di «comunicazione» e «testimonianza» vissuta del messaggio che si «annuncia». Il rapporto diretto, che si crea in Rete, tra centro e qualsiasi punto della periferia forma un’abitudine all’inutilità della mediazione incarnata in un certo momento e in un certo luogo e dunque anche alla testimonianza e alla comunicazione autorevole.
Qualcuno, per fare un esempio, potrebbe chiedersi: perché devo leggere la lettera del parroco se posso realizzare la mia formazione attingendo materiali direttamente dal sito della Santa Sede?
Molti, del resto già, grazie alla televisione, ben conoscono il volto del Santo Padre, ma non riconoscerebbero il vescovo della propria diocesi.
Ricchi e poveri: la disuguaglianza nell’accesso
Si potrebbe osservare, infine, che in epoca di globalizzazione il mondo appare diviso anche a livello di tecnologie di comunicazione e quindi la Rete rischia di segnare un’altra linea di confine tra il mondo industrializzato e i Paesi in via di sviluppo, anche all’interno del mondo ecclesiale. Sappiamo che la sola città di New York ha più postazioni di Rete di quante ne abbia l’intero continente africano. Il 93,3% degli utenti Internet fa parte del 20% della popolazione più ricca del pianeta. Il mondo religioso telematico dunque sarebbe esclusivamente per ricchi. Il criterio morale principale per l’uso di Internet offerto dal documento «Etica in Internet» appae chiaramente la «solidarietà» (n. 5). Internet in questo senso può essere una risorsa, ma anche un rischio: il modello neo-liberista e libertario viene esplicitamente respinto dal documento vaticano (nn. 8 e 14).
Conclusione
Dopo aver descritto le forme del navigare in internet, ho provato a costruire una tipologia degli spazi religiosi virtuali. Descritta dunque in breve una fenomenologia di base, ho messo in evidenza alcuni pericoli e soprattutto alcune sfide da accogliere con ottimismo e discernimento: la risposta ai bisogni religiosi più autentici che emergono in Rete; la sfida di un dialogo spirituale, che trova in essa sempre più spazio; la necessità di valorizzare le nuove possibilità per un intenso e ampio dialogo teologico e interreligioso.
In particolare per la Chiesa cattolica internet rappresenta un ambiente che comporta, come molte realtà umane, rischi e opportunità, pericoli e risorse. Occorre ricordare che il mezzo non deve mai tradire il messaggio e che la comunicazione cristiana deve sempre essere ispirata alla valorizzazione della persona umana nella sua complessità. La Chiesa comunque non potrà mai essere intesa unicamente come una «comunità virtuale» né essere «ridotta» a una rete autoreferenziale, seppure potenzialmente infinita nella sua estensione. Tuttavia la Chiesa stessa è chiamata a vivere nel mondo ed esso non può non determinarne anche la figura concreta, storica e i modelli di comunione possibili. Internet dunque rappresenta chiaramente una «nuova frontiera della missione della Chiesa» a livello sia pastorale sia di riflessione sistematica.
In caso di naturale disorientamento, il cristiano dovrebbe ricordare le parole di Paolo VI, il quale nella Evangelii nuntiandi, riferendosi ai media, affermava che «la Chiesa si sentirebbe colpevole davanti al Suo Signore se non adoperasse questi potenti mezzi, che l’intelligenza umana rende ogni giorno più perfezionati» (n. 45). Giovanni Paolo II lo ha ribadito con parole forti e plastiche: «esorto tutta la Chiesa a varcare coraggiosamente questa nuova soglia, per “prendere il largo” nella Rete».
CONVEGNO - ANCONA, 23/24/25 OTTOBRE 2003
REALTA' E CONTRAFFAZIONI DEL SACRO
Discernimento, Trappole e Travisamenti Lungo i Percorsi dell’Attualita’ Socio-Religiosa
Nella riflessione più recente il pudore viene ricollocato in una sfera di rilevanza ontologica e personalista. Credo infatti, che oggi si imponga un recupero metafisico del pudore che metta a profitto le acquisizioni psico-sociologiche, immettendole in un orizzonte sostanziale.
Nel nostro caso ritengo si possa affermare che, mentre il pudore, inteso nel suo profondo senso di custodia dell’intimità è un dato costante della persona in quanto connesso alla sua situazione ontica ed esistenziale, le sue espressioni sono quanto mai storiche e relative. Il suo legame con il rispetto dovuto all’uomo ne fa un grande tema etico, mentre la pretesa di codificarlo – come spesso è stato fatto – in una rete di norme obiettivate lo abbassa a un mero precettismo moralistico.
La nudità, nel linguaggio della Bibbia, è lo stato di base, è la radicalità dell’uomo, è l’uomo senza nessuna specificazione, è l’uomo nella sua purezza, limite e splendore, grandezza e debolezza. L’uomo così, nella sua nudità interiore ed esteriore, si presenta di per sé come una realtà meravigliosa.
Quando l’uomo è in pace con Dio, non ha vergogna della sua nudità, non ha vergogna della sua realtà: egli si accetta. Quando invece la sua libertà è ormai spezzata, quando sente che ha dentro di sé un’opzione che tra poco lo porterà a incrinare sempre più la comunione con Dio, ebbene in quel momento l’uomo ha paura della sua nudità. Sente che non è più limpido come prima e non può più accettarsi. Sente il bisogno di coprirsi ed è Dio stesso che va incontro a questa necessità esistenziale vestendolo.
Allora le tuniche di pelle diventano un segno teologico: il segno di Dio che cerca l’uomo e se ne prende cura; il segno della rinnovata alleanza del Creatore con la creatura. Questo segno è distintivo della relazione tra Jhwh e il popolo d’Israele.
Tutto ciò è stato ripreso dalla Liturgia dei primi secoli, come ci testimonia l’“Ambrosiaster” (circa seconda metà del IV sec.), in cui il momento centrale del rito del matrimonio è la velazione. In precedenza, il velo ricopriva il capo di entrambi gli sposi richiamando il baldacchino del talamo nuziale, segno per eccellenza dell’intimità e della custodia della relazione sponsale.
Questo è l’elemento più espressivo della tradizione profana a cui la Chiesa attinge: il giorno delle nozze la giovane indossa un velo che l’annovera tra le donne maritate. Accompagnata da una benedizione, l’imposizione del velo, a partire dal IV sec, divenne il rito essenziale del matrimonio cristiano a Roma e nei paesi della sua area culturale.
Nella stessa epoca la velatio, effettuata pubblicamente e accompagnata da un’appropriata benedizione, divenne il rito essenziale della consacrazione delle vergini cristiane e ancora oggi, per noi che scegliamo di seguire Cristo nella forma di vita consacrata, il segno della velazione resta la memoria visibile di un’appartenenza totale e totalizzante a Cristo sposo. È importante rilevare anche che, alle origini, le consacrate non indossavano abiti speciali: il velo era l’unico segno ufficiale della loro appartenenza a Dio.
Come le tuniche di pelle per l’uomo caduto e il lembo del mantello per il popolo eletto sono il simbolo del rinnovarsi dell’alleanza e della predilezione di Dio, così il velo, ieri come oggi, mantiene il significato dell’alleanza nuziale tra l’uomo e la donna, tra la vergine e Cristo, facendosi espressione della relazione sponsale e del senso del pudore quale custode di questa e di tutte le relazioni, umane e spirituali.
Nell’episodio del roveto ardente (cfr. Es 3,6 ss) Mosè si copre il volto perché teme: è il timore sacro di fronte a Dio; è la consapevolezza che la relazione tra l’uomo e Dio rimane sempre velata perché caratterizzata dal mistero quale dimensione costitutiva dell’Assoluto. Questo mistero è ineludibile anche nel momento in cui Dio rivela il suo nome nel quale, secondo la concezione dell’ebraismo, è contenuta l’essenza della persona.
Invece nell’episodio in cui Mosè riceve le tavole dell’alleanza il velo viene posto sul viso dopo l’incontro. Scendendo dal monte Sinai (cfr Es 34, 29-35) la Gloria di Dio splende sul volto di Mosè rendendolo raggiante. Ed è qui che Mosè, intimo di Dio, segno vivente della presenza divina in mezzo al popolo, si copre il volto di fronte a Israele, quasi a esprimere la trascendenza del Dio di cui è intimo e mediatore.
Qui il velo continua a rimandare alla dimensione del mistero e assume l’ulteriore significato del carattere intimo ed esclusivo del rapporto personale con Dio. Questa relazione, la cui autenticità è garantita dal senso del pudore, diventa il modello paradigmatico di ogni incontro con l’alterità. Ciò significa che il pudore si presenta come conditio sine qua non affinché si possa parlare di relazione autentica.
Contrariamente al luogo comune secondo il quale il pudore inibisce, respinge, chiude e impedisce una reciproca donazione totale, ritengo che in esso l’io e il tu si trovino in stretta e inscindibile relazione: attraverso il pudore, infatti, l’io invita il tu a non risolverlo esclusivamente nella propria corporeità, lo sollecita a intravedere – dietro il velo che impedisce la piena rivelazione della persona – il mistero del proprio essere.
Il nostro retaggio culturale ci porta a identificare la persona divenuta sguardo con la figura maschile, e quella divenuta puro oggetto di sguardo con la figura femminile che nel tentativo di liberarsi da secoli di sottomissione è caduta nell’eccesso contrario della totale ostentazione di sé. Tuttavia questa emancipazione della donna, da un verso le ha permesso di esprimere la sua ricchezza e il suo genio, dall’altro, quando ha assunto contorni esasperati che l’hanno condotta a una pseudo-libertà divenuta alienazione riducendola alla condizione di oggetto, di fatto l’ha riportata a una nuova schiavitù.
Come dice il teologo Campanini (cfr. “Il senso del pudore” in Studium n. 9 1965): “l’offesa del pudore è un insulto perpetrato contro l’interiorità”. Infatti ciò che riduce la persona a corporeità, ne misconosce il senso profondo e la dimensione metafisica.
Il pudore invece costituisce un invito a ricercare – dietro lo stimolo rappresentato dall’incompleto svelamento della corporeità e dal mantenimento di una sfera di silenzio e di segreto – il mistero racchiuso, al di là del corpo e insieme con esso, nell’essere.
Il vestirsi, come esteriorizzazione del senso del pudore, è allora finalizzato non solo a velare quelle parti del corpo che non vogliamo far conoscere, ma anche a condurre lo sguardo verso il nostro volto e i nostri occhi: in tal modo l’incontro con lo sguardo dell’altro e la sua percezione della nostra personalità precedono l’apprezzamento per il nostro corpo e indicano il livello in cui deve avvenire la comunicazione interpersonale.
Nella nostra cultura contemporanea, in apparenza il corpo è fortemente valorizzato, nulla sembra tanto desiderabile quanto il suo benessere: le immagini di corpi perfetti dall’aspetto giovanile e l’abbronzatura perenne sorridono sulle copertine delle riviste, sui muri delle nostre città, nei programmi televisivi.
Si profila dunque l’immagine di una corporeità pienamente realizzata. Ma se ci si interroga sul senso e sulla portata dei comportamenti, ecco subito farsi strada una certa perplessità. Quale valore viene realmente attribuito alla corporeità e agli atti che la esprimono? Leggera, facile, senza poste in gioco serie: non è essa forse minacciata dalla insignificanza? Che ne è del senso riconosciuto al corpo se i gesti più intimi diventano dei puri mezzi? Può risultare che esista uno scarto tra i modelli superficiali della cultura più chiassosa e ciò che vivono o provano veramente le persone reali.
Invece ciò che mi preme sottolineare è che il senso del pudore restituisce al corpo il suo significato più proprio: non si tratta di negare o sottovalutare la corporeità ma di operare un’assunzione completa di questa nella personalità.
Tutto quello che abbiamo detto ci porta ad affermare che il senso del pudore conduce all’imprescindibile indissolutezza di corpo e anima, di materia e spirito, quindi oltre a essere custode di questa unità, è rivelatore dell’essenza dell’uomo come corpo abitato dallo Spirito.
Il termine rinvia al Santo dei santi del tempio di Gerusalemme, cioè al luogo della presenza reale di Dio. Peraltro, contrariamente all’idea acquisita secondo cui il nostro corpo ci appartiene, il che è vero a un certo livello umano, S. Paolo afferma che il nostro corpo non è solamente e non è esattamente nostra proprietà. Fondamentalmente relazionale, il corpo è realtà che noi riceviamo due volte da Dio: come creato dal Padre e come salvato da Cristo.
In un certo qual senso, la nostra vita è sì nostra e in ciò consiste la nostra libertà, ma tale libertà giunge alla sua verità solo se si riconosce come vita ricevuta.
Ecco dunque il corpo innestato sulla vita trinitaria stessa: riceve la propria vita dal Padre, è inserito nel corpo di Cristo, è abitato dallo Spirito. Il Padre è l’origine, la sorgente del dono; il Cristo è la forma, il volto, il primogenito, il cui corpo, oggi, è la Chiesa, alla quale noi apparteniamo in maniera assolutamente corporale; lo Spirito è il soffio, il dinamismo divino che trasmette al corpo la sua vita più intima.
Quest’ultimo separava il Santo dei santi, dal resto, facendone il luogo più intimo dove si nascondeva la Gloria e si custodiva l’arca dell’alleanza. Vi passava, come sappiamo, solo il sommo sacerdote, una volta l’anno per il rito di espiazione nel giorno della riconciliazione.
Questo mistero, pienamente rivelato in Gesù Cristo, rimane – per l’uomo immerso nella contingenza della temporalità – ancora nascosto perché le realtà divine si offrono sotto la categoria dei segni; allo stesso tempo annuncia già la pienezza della rivelazione escatologica che avverrà al termine della storia.
“Infatti – come dice S. Paolo – fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non rimosso, perché è in Cristo che esso viene eliminato: quando ci sarà la conversione al Signore quel velo sarà tolto. E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore” (2 Cor 3, 14-18).
Potremmo aggiungere, al termine di questa riflessione, che il significato originario della velazione come segno dell’appartenenza e della fedeltà reciproca tra l’uomo e la donna o tra la vergine e Cristo, nella visione medioevale della donna come tentatrice aveva assunto anche il senso di protezione dell’uomo dall’occasione di peccato, trasformando la reciproca appartenenza in possesso e conseguente dipendenza della moglie dal marito.
È da questa sottomissione che la donna ha voluto sciogliersi attraverso l’odierna liberazione da ogni velo. Ciò che però è auspicabile è il ritorno a quel significato originario del velarsi che rimanda all’imprescindibile necessità della vita interiore, custodita dal senso del pudore quale dimensione autentica dell’esistenza.
Notare la differenza sostanziale tra velazione delle donne musulmane e delle donne nella tradizione giudeo-cristiana:
la donna deve proteggersi dall’uomo: quale immagine di uomo? Un uomo che non sa minimamente governare i propri istinti e una donna che, con le sue “fattezze” istiga l’uomo alla concupiscenza. Quale libertà tanto proclamata se la donna deve continuamente difendersi dall’uomo?
la donna tentatrice, nel medioevo, è velata per protezione dell’uomo. C’è sempre qualcosa da cui difendersi, proteggersi...
la donna odierna, cristiana, si vela come segno di appartenenza a qualcuno, nella vera libertà dei figli di Dio.