NOTE INTRODUTTIVE AL CONVEGNO, Giuseppe A. Possedoni


CENTRO STUDI ORIENTE OCCIDENTE
Conversazioni su tre nozioni cardinali 
ed Esercizi spirituali per laici 

TRE PORTE PER LA VERITÀ BELLEZZA, PECCATO, PERDONO

1-2-3 dicembre 2011

NOTE INTRODUTTIVE AL CONVEGNO
Giuseppe A. Possedoni 
giornalista, saggista

Il 2011 è l’anno in cui ad Ancona avrà luogo un avvenimento della massima rilevanza: il XXV Congresso Eucaristico Nazionale. Anche in relazione a tale evento, il Centro Studi Oriente Occidente propone per il 2011 un’iniziativa che per impostazione e contenuti mira a inquadrarsi nel contesto delle occasioni di riflessione e approfondimento - programmate collateralmente al Congresso - volte a integrarne i frutti sotto il profilo culturale, e, più specificatamente, filosofico- teologico.
Il convegno Tre Porte per la Verità: peccato, Bellezza, Perdono. Conversazioni su tre nozioni cardinali ed esercizi di spiritualità per laici vuole indagare, per quanto possibile nell’arco della sua durata e nella misura in cui si propone di farlo, tre nozioni costituenti altrettanti varchi verso l’unica, vera Verità; non una tra le molte verità teorizzabili (filosofica, scientifica, religiosa, ecc..), ma la sola assoluta, consistente nella rivelazione divina ricevuta dall’uomo attraverso la vita vissuta e la dottrina insegnata dal Cristo Gesù di Nazareth, e trasmessa tradizionalmente dal Magistero dell’istituzione da Lui stesso fondata. Il tema della Verità è indagato e illustrato probabilmente nel modo più profondo dal Vangelo di Giovanni, per il quale Gesù è innanzitutto il Rivelatore del Padre. L'Evangelista ne descrive la missione affermando che Egli attesta ciò che ha veduto e udito; eppure nessuno accetta la sua testimonianza. E Gesù stesso dichiara ai giudei di Gerusalemme di avere loro proclamato la verità, quale io l'ho udita da Dio, aggiungendo però che a me, che vi dico la verità, non credete. Il segreto per superare questa barriera d’incredulità non sta, però, nella conoscenza astratta degli insegnamenti veritieri, che pure – sia ben chiaro – è necessaria, ma nella loro assimilazione intima e personale, la quale può avvenire solo nell’incontro esistenziale con Cristo. Ecco, dunque, il motivo per cui l’iniziativa concepita dal Centro Studi Oriente Occidente per questo 2011 – anno della celebrazione, nel capoluogo marchigiano, del XXV Congresso Eucaristico Nazionale – prospetta, oltre alle conversazioni rientranti nell’ambito del convegno, l’offerta di esercizi spirituali per laici, intendendosi con tale dicitura (“per laici”) una forma di esercizi spirituali aperta e adatta a tutti coloro – credenti, ma anche non credenti - che vogliano confrontarsi con la proposta cristiana.
Riguardo alla prima nozione - di B e l l e z z a - essa è, si può dire, traccia della Divinità, dell’Assolutamente Bello, del Vero. La Verità, infatti, non si può separare dalla Bellezza, perchè – come insegna Benedetto XVI - la Verità, scopo, meta della ragione, si esprime nella bellezza e diventa se stessa nella bellezza, si prova come Verità. Quindi dove c’è la Verità deve nascere la bellezza, dove l’essere umano si realizza in modo corretto, buono, si esprime nella bellezza. La relazione tra Verità e Bellezza è perciò inscindibile. L’uomo, immagine di Dio, reca i tratti della Divinità. Egli, certo, deve scrutarsi a fondo per disvelare la Bellezza originaria in sè e poterla così scorgere anche attorno a sè. Ma al compimento di questa operazione, egli, giungendo alla Verità di sè, realizza contestualmente la reintegrazione con i propri simili e con l’intero creato. La Bellezza è, quindi, la chiave della rivelazione del mistero di sè e di Dio, e l’uomo riconosce ciò che è bello per quelle stesse ragioni che dall’eternità porta dentro di sè.
Anche la creazione materiale – di cui Dio, dopo averla evocata ex nihilo, mirò compiaciuto bontà e bellezza - ne porta l’impronta. Certamente, ... il creato è stato condannato a non aver senso, non perchè l'abbia voluto, ma a causa di chi ve lo ha trascinato (Romani 8, 20), e pertanto aspetta con grande impazienza il momento in cui Dio mostrerà il vero volto dei suoi figli (Romani 8, 22), mentre nel frattempo geme e soffre le doglie del parto (Romani 8, 22), in attesa che tornino a palesarsi pienamente la bontà e la bellezza originarie. Ma, guardando sapientemente oltre le deformità e le distorsioni che si parano innanzi alla nostra esperienza, è fin da ora possibile, a patto che non la si concepisca solo esteticamente, nel senso di una fruizione psicologica imprigionata in un’immanenza senza mistero, intendere la Bellezza dell’Origine. E intenderla è possibile, ad esempio, apprezzando l’essenza spirituale del prossimo; o contemplando la sacralità dei fenomeni naturali; o pure cogliendo i frutti devozionali di una retta liturgia religiosa.
La contemplazione della Bellezza originaria è però ostacolata da un fattore che permette di coglierla solo in modo parziale e offuscato: il p e c c a t o . 
Quello che di Dio potremmo intendere mirando le creature e il creato, a causa delle limitate capacità intellettuali e morali sopravvenute in seguito agli effetti del peccato, possiamo invece solo vagamente intuirlo, in modo incompleto e talvolta distorto. L’uomo è stato creato per vivere - per sempre - in una relazione di confidenza con il suo Creatore; e però, concependo invece diffidenza, ha inizialmente peccato abusando della propria libertà e ha preferito vivere nella presunzione d’autosufficienza, senza e contro Dio.
Il peccato però, per quanto tragico evento esiziale, non ha irrimediabilmente sfigurato la natura umana; nondimeno, restano, per ognuno, le conseguenze dell’atto con cui il progenitore, ai primordi, scelse di decadere dalla sua condizione originaria. Tuttavia, la cultura moderna – ha insegnato Giovanni Paolo II - non riesce ad ammettere l’idea di un peccato ereditario, connesso cioè con la decisione di un capostipite, e non con quella del soggetto interessato. E in effetti la dottrina del peccato originale presenta problemi di non facile soluzione anche per i credenti: è dunque essenziale affrontare questo tema – che troppo spesso viene accantonato, anche in ambito cattolico - approfondendolo in dialogo con le altre discipline, e sempre alla luce dell ́insegnamento del Magistero. Nonchè alla luce del fatto che, qualora la dottrina del peccato originale venga omessa, crolla non solo il castello delle filosofie miranti a spiegare le ragioni dei limiti dell’esistenza umana, ma anche l’edificio della Fede. Ne deriva la primaria necessità di salvaguardare con un retto procedimento la facoltà della ragione - di cui la generalità degli uomini può avvalersi per compiere l’iniziale accostamento alle questioni d’ordine spirituale – dai rischi di un suo deterioramento. E in primo luogo dal rischio che, perdendo il riferimento alla Verità, vada avvitandosi nella spirale della gnosi.
La gnosi (= conoscenza) è, forse, il più grave pericolo intellettuale e spirituale che minaccia la ragione dell’uomo. Esaminando il fine della gnosi – di tutte le specie di gnosi – si constata che esso è la distruzione dell’attuale ordine dell’essere, percepito come ingiusto e corrotto, e, in virtù delle sole forze umane, instaurarne un altro perfetto. A prescindere da come si concepisca l’ordine dell’essere, esso è e rimane sempre qualcosa che, rispetto all’uomo, è un dato di fatto, che lo precede e che non è sotto il suo controllo. Pertanto, affinchè il tentativo di instaurare un nuovo ordine perfetto sia sensato, è necessario teorizzare che questa caratteristica di dato di fatto su cui l’uomo non può sostanzialmente incidere possa essere cancellata, e interpretare invece l’ordine dell’essere come qualcosa che può cadere sotto il controllo umano. Ma perchè tale interpretazione possa darsi, è necessario che venga cancellata anche l’Origine trascendente dell’essere, da cui l’essere riceve il suo ordinamento: è necessario, cioè, scindere l’essere da chi lo ha creato, ovverosia teorizzare l’inesistenza di Dio.
Alla radice dell’atteggiamento gnostico, possono esservi diverse motivazioni. L’uomo d’indole religiosa, che crede in virtù della sua fede, può, a un certo punto, provare, per aridità o stanchezza o colpa o sconforto o varie altre ragioni, ansia e incertezza rispetto alle sue convinzioni, ed essere sopraffatto da angosciosa consapevolezza che ciò che lo lega ad esse - il vincolo della fede – è un nesso tenue, soggetto alla possibilità di spezzarsi. Ciò può costituire un peso troppo grande, insopportabile, per colui che ha un intimo bisogno di sicurezza spirituale, ed ecco allora che a costui può accadere di orientarsi verso altre esperienze, nel tentativo di assicurare alla sua spinta verso il Trascendente, una presa apparentemente più salda di quella consentita dalla fede. Le esperienze gnostiche sembrano, appunto, offrire questa più salda presa, perchè paiono in grado di dilatare l'anima a tal punto da includere Dio nell'esistenza dell'uomo. La gnosi, cioè, cerca (illusoriamente) di superare l'incertezza che talora s’insinua in chi si affida alla fede, mediante un indietreggiamento rispetto alla Trascendenza, ovvero conferendo alle convinzioni umane, e all’opera intramondana dell’uomo, un significato di compimento escatologico, trasformando quello che nel Cristianesimo è lo sforzo spirituale verso la santificazione della vita, in un anelito d’autoredenzione nel mentre che perdura l’esistenza terrena. Nel tentativo di sottrarsi all’insicurezza che può assalirlo di fronte al fatto che la fede, necessariamente, non corrisponde alle istanz di un desiderio di conoscenza che voglia esaurire totalmente, sul piano della comprensione razionale, le grandi, fondamentali questioni dell’esistenza, l’uomo, invece di affidarsi ancor più intensamente alla fede, può arrivare a convincersi che la fede sia uno strumento insufficiente o inutile o addirittura dannoso rispetto a tale aspirazione, e giungere piuttosto a credere che le sole proprie forze e facoltà possano acquisirgli, qui ed ora, quella robustezza di certezze – di cui avverte un’insostenibile urgenza - sul significato e la finalità della sua presenza nel mondo, sul destino che lo attende e sul modo più idoneo di operare in vista di quel futuro. Egli, cioè, può, aderendo a tale convinzione, divenire uno gnostico.
Ma le “certezze” che lo gnostico si procura ritraendosi dalla fede e affidandosi unicamente a se stesso, sono solo immaginarie, poichè prive di un radicamento oggettivo nella sfera trascendente, e sussistenti soltanto nella sua sfera psicologica soggettiva. Certo, tali certezze immaginarie, finchè continua a crederle reali, placano la pressione psicologica che lo ha spinto sino a quel punto, ma lo deviano dalla sola, reale prospettiva escatologica verso cui ognuno dovrebbe sempre restare orientato: il disvelamento che, dopo la morte, un Giudice onnisciente gli accorderà delle sole vere certezze alle quali – o avvedutamente affidandosi alla fede, o temerariamente, presumendosi in grado di conquistarle autosufficientemente - ha in vita aspirato. Una prospettiva rispetto alla quale, dopo averla colta, la presunzione umana di conoscere deve, conscia dei propri confini, restare consapevolmente muta.
Per questo, la qualifica di sophos (= colui che conosce) nel mondo greco antico era ritenuta eccessiva per un uomo, potendosi essa attribuire solo a Dio, e invece addicendosi all’uomo quella di philosophos (= amante della conoscenza); così che, l’uomo filosofo, essendo la vera sapienza riservata unicamente a Dio, inevitabilmente diveniva, coltivando il suo amore per la conoscenza, teophilos (= amante di Dio”). L’indagine umana era e naturalmente rimane sempre attuabile, ma in termini di sempre maggiore chiarezza e precisione nella conoscenza dell’ordine dell’essere in quanto oggetto d’indagine dato, avente un’origine trascendente. Ma il salto oltre i confini del finito, verso una conoscenza perfetta erroneamente ritenuta a portata dell’uomo, era e resta impossibile. E credere, invece, che lo sia, comporta ineluttabilmente la deriva nel mare della presunzione gnostica e il prometeico rifiuto della verità che Dio non è - nonostante che lo gnostico si illuda del contrario – circoscrivibile entro la possibilità di comprensione e il raggio d’azione della volontà creatrice dell’uomo. Lo gnostico non può accettare che Dio si estenda oltre i limiti di quel che è concepibile e fattibile da parte dell’uomo, così che pensiero e volontà umani appaiano per quello che veramente sono, limitati e finiti. E così – dopo avere attuato in sè un’immaginaria riduzione di Dio all’ambito della sua portata intellettuale e d’azione – lo gnostico viene a trovarsi imprigionato nel vanaglorioso pensiero secondo cui - così come ha convenientemente espresso Nietzesche – “Se vi fossero degli dei, come potrei io sopportare di non essere un dio?”.
L’ombra che il peccato e le sue derivazioni proiettano sulla natura umana, per quanto consistente, non è indelebile; e infatti, i suoi effetti sono già potenzialmente estinti dal più grande dei vantaggi copiosamente elargiti all’uomo: il P e r d o n o .
Il Perdono è il segno che una Realtà trascendente personale esiste e agisce, perchè il Perdono annulla gli effetti del peccato, che, prima di tutto, sono ciò che preclude all’uomo la consapevolezza dell’esistenza e dell’azione di tale Realtà, consentendogli quindi di coglierLa, per quanto questo è possibile nel corso dell’esistenza terrena. Se l’uomo ha inizialmente leso, con il peccato, l’ordine della creazione, nondimeno il Creatore non smette mai di richiamarlo a una riconciliazione. Il Perdono, quindi, è innanzitutto Perdono da parte di Dio. Un Perdono che si manifesta in primo luogo attraverso quello elargito dal Cristo, la cui missione centrale è esattamente quella di trasmettere all’uomo la giustificazione divina. Dunque è questo, il Perdono primario e fondamentale di Dio, il presupposto per cui – al fine di dare il suo contributo a neutralizzare i guasti del peccato – è possibile all’uomo perdonare a sua volta, facendolo innanzitutto verso il proprio prossimo; il che rappresenta, probabilmente, il compito per lui più arduo, dato che le sue forze, costituzionalmente limitate di creatura, non gli consentirebbero di farlo se non lo soccorresse, appunto, il Perdono antecedentemente accordatogli dal suo Creatore.
Vi sono due passi del Vangelo che vale la pena citare per tentare di comprendere un pò approfonditamente l’insegnamento cristiano sul Perdono del prossimo:
... Allora Pietro, accostatosi, gli disse: Signore, se il mio fratello pecca contro di me, quante volte gli dovrò perdonare? Fino a sette volte? Gesù gli disse: Io non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. (Matteo, 18, 21-22)
Alla domanda di Pietro su fino a che misura bisogna perdonare le offese che si ricevono dal prossimo, Gesù risponde, in modo molto netto e preciso, che non va posto alcun limite al Perdono stabilendo un culmine oltre il quale si possa pensare che è impossibile andare. L’insegnamento di questo passo è che bisogna essere sempre pronti a perdonare, e a farlo in misura illimitata, sempre, e costantemente disponibili ad accogliere benevolmente i nostri simili a prescindere dai loro sbagli. Però, per prevenire la caduta in un fraintendimento, non poco diffuso, la consapevolezza di questo insegnamento dovrebbe essere sempre unita alla consapevolezza di un altro passo evangelico, parallelo a quello citato, in cui si legge quest’altro detto di Gesù:
Se tuo fratello pecca contro di te, riprendilo; e se si pente, perdonagli. E se anche peccasse sette volte al giorno contro di te, e sette volte al giorno ritorna a te, dicendo: ‘mi pentò, perdonagli. (Luca 17, 3-4).
Si tratta di un passo che completa quello precedente, perchè, oltre a sancire che la disponibilità a perdonare dev’essere illimitata, sancisce un punto – la necessità del ravvedimento in colui che ha perpetrato l’offesa – che se viene omesso rischia di ingenerare un’errata comprensione del vero senso del Perdono cristiano.
Alcuni, però, obiettano che sulla Croce, poco prima di spirare, Gesù invocò il Padre affinchè perdonasse i suoi carnefici (Luca 23, 24), i quali, lungi dal rendersi conto di ciò che stavamo perpetrando, non nutrivano in quel momento la minima propensione al pentimento, ma persistevano con totale convinzione nella loro empietà. Ma prima di richiamarsi a questo passo per giustificare l’idea che nulla s’interpone fra il peccato dell’uomo e il Perdono di Dio, e che il cristiano, in base a ciò, dovrebbe incondizionatamente accordare il suo Perdono al prossimo che lo offende, senza pretendere – si badi bene – non che l’offensore si scusi o compia atti riparatori, bensì che manifesti la consapevolezza delle ripercussioni spirituali generate dalla sua condotta, ebbene, se si giustificasse una tale interpretazione, si starebbe fuorviando dall’insegnamento cristiano. Piuttosto, ci si dovrebbe chiedere come il Padre abbia corrisposto all’intercessione del Figlio che domandava pietà e possibilità di salvezza per coloro che stavano commettendo un atto di gravità incommensurabilmente più grande di quanto potessero sospettare. E leggendo la Scrittura nella sua interezza - come sempre dovrebbe avvenire - si può plausibilmente dedurre (per ciò che è nel raggio delle facoltà umane sostenute dalle nozioni che derivano dalla Rivelazione) che all’invocazione di Gesù non seguì il Perdono automatico e immediato del Padre nei confronti dei carnefici e dei loro mandanti. Ciò sembra indicato dal primo discorso di Pietro dopo la Pentecoste, rivolto ai giudei d’ogni nazione che si trovavano a Gerusalemme (Atti 2,14). Spiegando ai presenti le loro responsabilità in relazione alla morte di
Gesù (Atti 2,23), egli colpì profondamente molti di coloro che lo ascoltavano, i quali chiesero a lui e agli apostoli che cosa avrebbero dovuto fare (Atti 2,37), ricevendo da Pietro questa esortazione:
Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito Santo (Atti 2,38)
Coloro che direttamente o indirettamente erano stati partecipi o responsabili della crocifissione, ebbero così l’opportunità di essere perdonati, previo loro pentimento. È in questo momento che il Padre risponde all’invocazione di misericordia fatta da Gesù sulla Croce. Avviene cioè che il Perdono divino, costantemente preordinato verso tutti, passa però attraverso il ravvedimento e la conversione.
Nei confronti del prossimo che pecca e lo offende, il cristiano – e più generalmente ogni uomo - dovrebbe (ma lo può solo se assistito dal soccorso divino) sempre nutrire uno spirito misericordioso pronto al Perdono, così come significato dal seguente frammento:
Signore non ricordarti soltanto degli uomini di buona volontà, ma anche di quelli cattivi. Ma non per guardare a tutte le sofferenze che ci hanno fatto patire: ricordati piuttosto delle cose buone che quelle sofferenze hanno fatto nascere in noi: la lealtà, l’umiltà, il coraggio, la generosità, la grandezza d’animo che ci è cresciuta dentro per tutto quanto abbiamo sofferto. E quando quegli uomini verranno al giudizio finale, lascia che i buoni frutti che da noi sono nati siano il loro perdono (Scritto trovato vicino al corpo di un bambino nel campo di concentramento di Ravensbruck).
Ma senza che ciò conduca a sottovalutare che può ottenere il Perdono soltanto chi si ravvede, perchè
... vi sarà in cielo più allegrezza per un solo peccatore che si ravvede, che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di ravvedimento (Luca 15,7).